martedì 27 dicembre 2011

da Enzo Pelella

Ho iniziato a frequentare il Pci nel 1948 (a 12 anni) insieme a mio padre Alfredo, operaio tornitore specializzato.
Il Pci ha avuto un ruolo importante, nella storia d’Italia e del movimento operaio internazionale. Era un’organizzazione grande e complessa e, come tale aveva luci e ombre. A me interessa sottolineare, qui, un solo aspetto: la funzione educativa che ha esercitato tramite i suoi aderenti. Anche correndo il rischio di essere agiografico.
L’informazione: Mio padre è stato il primo degli “insegnanti” di questa scuola. Sin dall’età di dodici anni, mi chiedeva spesso di leggergli un articolo dal quotidiano (l’unità) che portava a casa; con la scusa “che era stanco”. Purtroppo scomparve nel ’51, ma nel frattempo mi ero abituato a leggere il giornale.
Pensare: Nel ’52, grazie a un accordo sindacale, fui assunto all’ex Silurificio, fabbrica dove la maggioranza degli operai erano comunisti. Lì iniziò quella che ritengo la mia università.
Per un periodo feci l’apprendista nel reparto attrezzi. Qui mi capitò di avere una discussione con un operaio sul modo di eseguire un lavoro. La discussione ebbe fine quando quest’operaio disse che aveva ragione lui perché aveva più esperienza. Non ero convinto e andai chiedere consiglio a un altro operaio. Questo mi rispose che “l’esperienza non ce l’ha chi è campato assai, ma chi ha pensato assai sui fatti della vita”.
Libertà: “ricordati che l’operaio deve guadagnare sempre una lira in meno di quanto vale, perché quella lira è la sua libertà” mi rispose un operaio con il quale mi lamentavo del prezzo di un cottimo.
Solidarietà: Dal primo giorno di lavoro nell’ex Silurificio fui destinato alla prima stazione di una catena di montaggio. Fui subito “adottato” dai miei compagni di lavoro più anziani, anche perché molti di loro era stati allievi di mio padre.
Il primo giorno lavorai 6 ore, il secondo 12, il terzo 24. Durante la notte, naturalmente, avevo sonno. Per combattere la sonnolenza approfittai del fatto che il tempo di esecuzione assegnato alla mia mansione era maggiore di quello reale e di essere il primo della catena, così mi avvantaggiai un poco di lavoro e andai a farmi un giro fuori dal capannone. Al mio ritorno, dopo un po’, un amico di mio padre, che lavorava in un altro reparto, mi raggiunse e mi redarguì: “ Hai un dovere di solidarietà verso i compagni di lavoro e se hai tempo lo devi impiegare ad aiutare loro, no per passeggiare.”
Rigore: In fabbrica funzionava una mutua aziendale, amministrata da un consiglio di amministrazione composto da rappresentanti dell’azienda e dei lavoratori. Il Presidente era un rappresentante della direzione mentre l’amministratore delegato era un lavoratore.
La mutua, tra le altre cose, gestiva un armadio farmaceutico con prodotti acquistati direttamente.
Venne alla luce che un rappresentante aveva convinto (dopo molte insistenze) l’amministratore delegato ad accettare una percentuale sugli acquisti (a lui riservati) che altrimenti tornava alla casa farmaceutica.
Saputa la cosa ci fu subbuglio in fabbrica e unanime condanna della cellula comunista e della relativa rappresentanza nella CGIL. Indignazione degli operai perché :”doveva prendersi il denaro e versarlo alla cassa della mutua.””
L’indignazione fu tanta che la Commissione interna fu costretta a imporre alla riluttante direzione aziendale il licenziamento del reo; ottenuta sotto forma di dimissioni.


Dignità: Avevo meno di vent’anni e svegliarsi alle sei 6 giorni su 7 era dura. Per cui, qualche volta, per guadagnare tempo evitavo di sbarbarmi.
Un giorno, il segretario della cellula mi ammonì: “se hai bisogno di dormire vai a letto prima. A lavorare si viene in ordine. Noi siamo operai! Non sottoproletari. Abbiamo una dignità”

Ascoltare: In quanto membro della Segreteria Provinciale della FGCI ero impegnato, ogni sera, a
“visitare” la sede di un circolo. Durante queste “visite” mi convinsi, ancora di più, che invece di
parlare (per dare la linea) era più conveniente per tutti ascoltare.

Responsabilità: La FGCI convocò una manifestazione politica della gioventù operaia della provincia di Napoli. Io fui incaricato di curare la partecipazione dei giovani dei comuni della zona flegrea, dove risiedeva lo stabilimento in cui lavoravo.
L’incarico affidatomi si rilevò più gravoso del previsto; soprattutto per problemi logistici. Era praticamente difficilissimo far coincidere l’attività di mobilitazione giovanile e la possibilità pratica di tornare a casa.
La manifestazione non ebbe un gran successo.
Nella successiva riunione del Comitato federale della FGCI, la segretaria di organizzazione criticò lo scarso impegno dei compagni del Comitato federale, portando ad esempio la scarsa partecipazione dei giovani della zona che mi era stata affidata. Come si usava allora la critica fu fatta citando la mia responsabilità e facendo nome e cognome.
Ritenevo e, ancora oggi ritengo, la mia responsabilità relativa. Comunque c’era. Secondo la prassi dovevo “fare l’autocritica” e io la feci. Pur convinto che la mia responsabilità fosse minima, ma altrettanto convinto che se c’era fosse onesto riconoscerlo pubblicamente. Non bisognava scappare dalle proprie responsabilità senza mediazioni o minimizzare.
Il giorno successivo la segretaria di organizzazione, in un colloquio ufficiale a due, mi fece notare che ero incostante nella gestione quotidiana. Lo riconobbi e lei mi propose, a nome della segreteria, di occuparmi della creazione e gestione del circolo FGCI del quartiere Vomero. Accettai e iniziò così una grande esperienza, ma questa è un’altra storia.

Queste sono alcune cose che ho imparato nel PCI ma, soprattutto ho imparato a imparare, ho imparato la severità, ho imparato che migliorare se stessi significa contribuire a migliorare il mondo che ci è toccato in sorte.

martedì 20 dicembre 2011

da Raffaele Raiola

Il 23 novembre del 1980 a via Stadera il terremoto faceva crollare un unico edificio (ex INA CASA) di dieci piani.
Purtroppo per questo evento via Stadera sarà ricordato come il Quartiere che ha contato il più alto numero di morti a Napoli (53 vittime del terremoto). Il terremoto ha spezzato la vita ed i sogni di oltre 20 famiglie che avevano condiviso, alla fine degli anni ’70, insieme a tutto il quadro dirigente della Sezione PCI Stadera un entusiasmante percorso politico di democrazia partecipativa, perchè fossimo noi tutti insieme protagonisti delle scelte da effettuare per il risanamento e la riqualificazione del nostro Quartiere.
All’epoca ricoprivo la carica di Presidente della Circoscrizione di “Poggioreale”, eletto da una maggioranza di sinistra PCI-PSI-PSDI.
La popolazione tutta, alla prima scossa di terremoto, presa dallo spavento, si riversò per le strade e raggiunse le campagne vicine e i luoghi all’aperto privi di costruzioni, abbandonando frettolosamente le proprie case incustodite e lasciando luci accese e porte aperte.
Le forze dell’Ordine, l’AGESCI, i compagni di sezione, i cittadini volontari organizzarono le ronde per impedire ogni forma di sciacallaggio, mentre i Vigili del Fuoco coordinavano le operazioni di recupero delle salme dalle macerie. Per liberare le strade dalle auto in sosta requisimmo di fatto, senza alcun provvedimento amministrativo, tutti i campi sportivi della zona dove sistemammo le famiglie all’interno delle proprie autovetture. Le famiglie prive di autovettura le sistemammo nei pullman del trasporto pubblico urbano stazionati all’interno del deposito dell’ATAN di via delle Puglie, messo a disposizione dall’azienda municiplizzata. Gli autisti dell’ATAN accompagnati da singoli Consiglieri di Quartiere, giravano per le strade e raccoglievano le persone, disposte a trovare un ricovero dal freddo, sebbene molto precario. All’epoca non esisteva la Protezione Civile, ma in questo modo riuscimmo a garantire i primi soccorsi in attesa degli interventi delle Istituzioni locali e governative.

lunedì 19 dicembre 2011

da Chicco Testa

Ad un certo punto tocca eleggere un nuovo Presidente dell’ Arci, siamo nel 1983, dopo la bella Presidenza di Enrico Menduni. Il posto tocca, come da tradizione, ad un iscritto al PCI e io sono il giovane (?) e promettente segretario della neonata Lega per l’ Ambiente. Si fanno le consultazioni di pragmatica fra i segretari regionali e provinciali e quasi all’unanimità vengo indicato come il successore naturale. Ne vado fiero. Senonchè ... senonchè con Realacci e altri giovanotti legambientini avevamo cominciato a frequentare alcuni dissidenti polacchi ( c’era ancora il muro, solido e grosso) che ci avevano spiegato che la nostra battaglia pacifista non era giustificata, se non si fosse accompagnata a quella per la libertà. La loro, che stavano sotto la dittura sovietica e a cui noi apparivamo, oggettivamente, amici dei russi. “Se non ci fosse l’ America, dicevano loro, noi saremmo ancora più schiavi e voi la battaglia la fate solo contro gli USA. Siete quindi, sempre oggettivamente, amici dei nostri dittatori russi”. Quanto avessero ragione lo avremmo capito solo molti anni dopo, ma qualche dubbio comunque riuscirono a mettercelo in testa già allora. I sovietici, diciamo, proprio simpatici non ci stavano. Anzi. Cosicchè   decidemmo di partecipare ad una manifestazione milanese , insieme a vari gruppi cattolici, indetta sotto lo slogan “pace e libertà”.Che nel linguaggio politico di allora significava “ no  ai missili americani, ma anche no a quelli russi e alla dittatura sovietica”. Per la verità io in qui giorni stavo a Parigi, dove avevo conosciuto la mia futura moglie, ma detti comunque il necessario benestare. Torno da Parigi e Aldo Tortorella offre a Enrico Menduni un caffè da Rosati, a Piazza del Popolo, a Roma. Nel corso del quale gli comunica che Pajetta si è preso un’incazzatura super per quella manifestazione e che sarebbe quindi bene che io rinunciassi alla Presidenza dell’ ARCI.Menduni a sua volta mi offre un caffè e mi riferisce. Che dovevo fare? Smisi di bere caffè, presi atto e obbedii. E fino qui è solo una storia di errori politici ( non i miei , che avevo ragione) e di disciplina di partito. Ma il calice andava bevuto fino in fondo, con tutti i riti del caso. E così fui costretto a pronunciare un discorso di fronte ai compagni comunisti dirigenti dell’ ARCI, convocati nel mitico salone del Comitato Centrale a Botteghe Oscure, dove “spintaneamente” spiegai i miei errori le ragioni profonde e naturalemnte completamente fasulle per cui preferivo non ricoprire quell’incarico e continuare il lavoro in Lega Ambiente. In sala tutti ridevano, ma fecero finta di niente. All’ Arci non mancava il senso dell’umorismo.  Mi presi la rivincita un po’ di anni dopo, quando, Deputato del PCI, partii per Varsavia, pieno di dollari nascosti in pacchetti di pasta Barilla, e consegnai la merce agli amici dissidenti polacchi, che stavano per riconquistare la libertà. Di chi fossero quei soldi non lo ho mai saputo. Ma ho dei sospetti.

martedì 13 dicembre 2011

di Roberto Bongini

mi sono iscritto alla fgci nel 1976 all'età di 14 anni a rosignano solvay (comune di rosignano marittimo in provincia di livorno) con una tradizione familiare che và dallo zio sindaco, successivamente consigliere regionale e primo presidente della allora usl di zona, cugino assessore e padre nell'esecutivo del consiglio di fabbrica della solvay ( multinazionale belga, industria chimica),successivamente, tutta la trafila all'interno del partito da segretario di sezione, direzione provinciale,ecc..).
negli anni 80, si comincia a parlare a rosignano di un possibile impianto di pvc che la società solvay vorrebbe fare nella fabbrica di rosignano, tenendo conto che il territorio, per le produzioni ad alto rischio che già faceva la suddetta società, era già saturo di rischi ambientali (teniamo conto che c'erano già 2 bomboloni di etilene e che riguardo al pvc finchè non ci furono gli studi del dottor viola se ne sapeva poco). a quei tempi io stavo finendo il mio incarico in fgci (all'epoca ero responsabile provinciale della lega per il lavoro) per fare il segretario della maggiore sezione del pci del mio comune. personalmente e come fgci avevamo preso una posizione di contrarietà all'impianto, mentre il partito aveva una posizione favorevole. il partito aprì una consultazione tra l'iscritti (pensando che il partito fosse rappresentazione reale della società) che dette un consenso all'investimento e io ero nella situazione di dovere garantire la posizione del partito stesso, in quanto segretario della sezione, ma con un punto di vista diverso. si può immaginare che la discussione era accesa. la fgci, insieme ai movimenti e alle associazioni del territorio si schierò con la richiesta di un referendum consultivo sull'investimento con il voto ai sedicenni. io mi trovai nella strana posizione di segretario del partito (di giorno) e (di notte) a lavorare con i compagni della fgci. alla fine il referendum vide la vittoria dei contrari all'investimento con mia grande soddisfazione. ciò segnò anche la fine di un rapporto di fiducia dei cittadini con l'azienda. questo per dire solo alcune cose: già in quegli anni il partito non era più espressione della società in senso ampio (non aveva già più il ruolo pedagogico inteso in senso gramsciano) e inoltre perse l'occasione per cambiare la sua visione politica e fare crescere un nuovo gruppo dirigente (in pratica come ha fatto il pd sui referendum su acqua e nucleare). la difficoltà ai cambiamenti non è solo di oggi, ma è un difetto antico della sinistra.

di Fabiano Corsini

Fu Sirio il Taccini a consegnarmi la prima tessera del PCI, nel marzo 1970. Sirio aveva già una settantina di anni. Era il presidente dei probiviri, il compagno più prestigioso della sezione.
Mi avevano fatto aspettare un po'. La procedura prevedeva di essere presentati, che qualcuno garantisse. Poi gli organi dirigenti vagliavano la richiesta, e c'era da aspettare. Al Fortino, la casa del popolo dove aveva sede la Sezione Comunista di Marina, era rimasto un po' così; anche in quegli anni tumultuosi in cui la politica profondamente cambiava, pareva già cambiata. Ma non non mi dispiacque che su di me ci fosse un vero e proprio esame; che in qualche modo fosse valutata la mia vicenda politica. Per tre anni ero stato nel movimento studentesco, avevo simpatizzato per il Potere Operaio e per Lotta Continua. Ero stato era stato io, tutti lo dicevano, il colpevole vero dell'arresto di mio fratello. Quattro mesi di prigione per una manifestazione, sui binari della stazione di Pisa, dopo l'arresto di Guelfi e Marraccini. Sirio Taccini venne a casa mia, e prima di parlare indugiò a guardare i libri, le cataste della Monthly review e dei Quaderni Piacentini, accanto a Critica Marxista e Rinascita. Sirio, prima di consegnarmi la tessera, come aveva deciso il Direttivo, mi raccontò di tutti i fatti miei di quegli anni passati, e di come fossero stati tutti analizzati. “Abitavi con Renato Curcio” mi disse guardandomi dietro una nuvola di fumo che lo intossicava. “Si, erano tutti nell'appartamento dove vivevo io.” “Lo sappiamo” Era chiaro di che cosa mi si era imputato, ma anche che ero stato assolto. “Ne abbiamo anche noi di compagni così...nel portafogli ho la tessera di uno. La tengo io. Ha fatto brillare una stecca di plastico a Camp Darby..quel bischero”.
E poi raccontò di sé, di quando era dirigente provinciale , e di come non lo era stato più. Di quando avevano deciso di sciogliere la sezione centro, troppo di sinistra, e di come poi lui, operaista, fosse stato a sua volta messo fuori. E di come fosse ritornato a spazzare i piazzali dell'Acit. Michele vedeva il vecchio compagno, con il sigarino tra le dita, sempre acceso, che raccontava cose che erano accadute proprio a lui; ma che raccontava non per fatto personale o per civetteria. Gli stava insegnando, il Taccini, di come si doveva stare in quel partito , di come ci stavano quelli che lo avevano fatto diventare forte.
A quell'epoca in Cantiere ci lavoravano mille e cinquecento persone. La Sezione, che dai licenziamenti del 1957 era sparita, cominciò a rinascere. Ne diventai segretario l'anno successivo, a ventidue anni.

domenica 11 dicembre 2011

da Verio Massari

Il primo incontro. Avevo 15 anni, nel '66, ero un bravo boy scout, e nel Liceo Scientifico Scacchi di Bari tirava una brutta aria per chi pensasse fosse giusto protestare per i bombardamenti su Hanoi, magari anche soltanto tentare una manifestazione con le altre scuole. Come succedeva al Flacco, il liceo classico, dove c'erano invece i "giovani comunisti", che qualche volta ci riuscivano pure. Però al Flacco non c'erano i neri ben più maneschi della mia scuola.
Ogni giovedi si riuniva alla sala del Combattente, in via Melo, pieno centro murattiano, un gruppo di questi "strani" studenti del PCI, tutti però del "classico". Era il Circolo Gramsci, manco sapevo chi fosse allora quel capellone "strano"... Ci andavo quasi regolarmente e scoprii così anche universitari e liceali che facevano sfoggio di buone letture, di film surrealisti visti in astrusi cineforum e i "conti rateali" degli Editori Riuniti. A volte, in quella sala, incappavo in zuffe a sediate selvagge con quelli del FUAN, che non gradivano la presa del " giù le mani dal Vietnam" sugli altri studenti , e poi soffrivano troppo la presenza delle "nostre" belle ragazze (tra tutte spiccava la lunga chioma di una nipote di King George..) e, quindi, rompevano, in tutti i sensi. Chiesi ben presto al leader del Flacco, Francesco Laudadio, di portarmi in questa mitica "Federazione" PCI, all'epoca in Via Trevisani, per capirne di più del "partito", di cui parlava come fosse Zaratustra. Francesco ne era ossessionato, per lui il futuro era il Partito (la sua direzione) o il fare cinema (e che infatti scelse dopo 10 anni esatti, andando a lavorare con Monicelli); a cinema ci andavamo insieme ossessivamente, litigando su tutto. Beh, non ci crederanno i più giovani ex-PCI (Nichi compreso), ma in quegli anni gli studenti erano le mosche bianche, in Federazione. C'erano, iscritti a decine per ciascun paese, tanti giovani apprendisti e operai nella FGCI della Puglia di prima del '68. Con Francesco, Aldo e altri 4 gatti noi studenti eravamo "marziani", andavamo nelle sezioni e nelle camere del lavoro della Provincia (oltre che a cinema), per parlare di cose e vicende della politica che cambiava a fine dei '60 con compagni "davvero" operai: pochi anni dopo i "gruppi" si sarebbero scannati per averne una minima frazione...Il PCI degli anni '60, in Puglia, era ancora bracciantile-operaio-plebeista e forse giustamente sospettoso dei suoi stessi "professori" (Reichlin, allora segretario regionale, Papapietro, Santostasi, De Felice, Vacca...), per non dire degli studenti. Gli intellettuali li si mostrava con orgoglio in qualche teatro, ma non li si capiva; ma soprattutto non dirigevano, non potevano dirigere, quel PCI, che subiva - allo stesso tempo - il fascino del potere amministrativo della DC nelle sale consiliari, tutti quei "signori" di cui non si poteva che ammirare, temere e imitare i comportamenti, che erano un bel pò più concreti delle chiacchiere dei "nostri professori" e roba diversa dallo sciopero a rovescio nelle campagne. Quando, qualche anno più tardi, citai Don Milani su un ciclostile alle scuole (con la famosa frase sulle professoresse e le puttane), quasi quasi mi cacciavano dalla FGCI. E infatti nel '68 ce ne andammo, dopo le Frattocchie a febbraio. Ma presto, dopo aver pazziato fino al '73 tra vari gruppi più o meno "rossi" e ortodossi, facemmo un umile e contrito ritorno alla casa madre. Avevamo già da ragazzini le stimmate del PCI, non potevamo, specie a Sud, andare da qualche altra parte. Il compagno Sicolo ci fece una ramanzina indimenticabile, chi se la scorda.. Nel frattempo il PCI diventava il Partito di Berlinguer, e noi diventavamo adulti (?). Ma in quella Federazione e in quelle Camere del Lavoro della Terra di Bari ho capito che i partiti e i movimenti popolari si nutrono di idee e di sangue vivo, sennò gli intellettuali e il pensiero non bastano mai. Il PCI era un impasto ineliminabile di valori veri, miti ed esperienze di vita dura, sofferenze, lotte, fatiche solidali e tanta gioia di vincere insieme...la politica era in cielo solo sui manifesti ai muri, ma in realtà un popolo in movimento continuo, con bandiere "proprie" che nessuno si sognava di imbalsamare in feticci del "socialismo reale". Ciao Francesco, te ne sei andato così presto, a 55 anni, e io qui ancora ti ringrazio di avermi portato quella prima volta in via Trevisani.

giovedì 8 dicembre 2011

da Domenico Talia

La politica degli anni settanta era fatta di scontri duri, di tante manifestazioni. Noi del PCI ovviamente eravamo a sinistra ma erano tanti quelli che facevano di tutto
per considerarci la stampella della DC, ad ogni occasione e in ogni corteo di studenti, la sinistra extra-parlamentare quasi si divertiva a farci apparire come conservatori.
Avevo 18 anni, ero già iscritto al partito e avevo un ruolo di dirigente della FGCI della mia zona in Calabria. La mattina del 16 marzo 1978 ero a scuola (ultimo anno di
Liceo) come tutte le mattine quando non c'era uno sciopero. In quell'anno tra scioperi e manifestazioni non si andava spessissimo a scuola. Saranno state le 10 e mezza
o le 11, il bidello bussò alla porta della 5a C, la professoressa lo fece entrare e lui chiese di me. Mi aspettava il preside. Scesi giù e, insieme al Preside, trovai un
compagno del Direttivo di zona. Non mi aspettavo che un compagno del PCI venisse a trovarmi o a prendere a scuola. Capii subito che qualcosa di grave doveva essere
successo. Lo salutai e lui mi disse senza attendere: "Stamattina hanno rapito Moro. Dobbiamo organizzare una manifestazione, bisogna reagire a questo atto orribile.
Dovresti venire subito in sezione." Rimasi di sasso, non potevo immaginare una cosa simile. I tempi erano difficili, ma non credevo fino a quel punto. Naturalmente il
Preside mi disse che potevo andare. Tornai per un attimo in classe a riprendermi i libri e il giaccone. Lo dissi ai miei compagni. Quelli mi guardarono come un marziano.
Qualcuno continuò a fare quello che stava facendo senza scomporsi più di tanto. Scesi di corsa e uscimmo insieme dal Liceo. La giornata passò tra telefonate, manifesti
e la manifestazione unitaria del pomeriggio. Era il tempo di quelli "né con lo Stato, né con le Br". Da quel giorno molte cose non furono più come prima. Ricordo anche
che il Congresso Nazionale della FGCI a Firenze quell'anno fu ritardato di qualche giorno a causa della vicenda Moro. La vicenda fu lunga e finì tristemente nel maggio
di quell'anno.
Qualche anno fa ho rivisto alcuni vecchi compagni di scuola, dopo più di trent'anni. Più di uno di loro per prima cosa mi ha ricordato quel mio annuncio in classe, la
mia faccia preoccupata e loro che non avevano capito la gravità di quel fatto.

martedì 6 dicembre 2011

da Luigi Ceccarelli

‎1° ottobre 1968: primo anno di liceo, una data significativa, direi. partecipo, più per curiosità che altro, alle lotte studentesche: occupazione, gruppi di studio, manifestazioni. dai primi anni '70 fino al 1979 milito nella sinistra extra-parlamentare, solito percorso: manifesto, pdup, democrazia proletaria. nel 1979 sono candidato per il mio comune per dp...poi succede che l'arci mi chiama a fare qualche lavoretto, poi una partecipazione più intensa, poi seguo le attività dei centri estivi per diversi comuni del comprensorio cesenate (capoluogo compreso) anche per via della mia laurea in pedagogia, poi divento segretario dell'arci e via dicendo. ed è in questa occasione che scopro un volto del pci e dei comunisti che mai avevo conosciuto. entro nelle sezioni per fare assemblee dell'arci e scopro un elevato numero di compagne e di compagni che si riuniscono, che discutono, che propongono e che pungolano i dirigenti e alla fine, miracolo! le decisioni sono di tutti: lo stupendo e democraticissimo centralismo democratico!! a farla breve, nel 1982 mi sono iscritto al pci e dopo un paio d'anni il segretario della federazione candidato sindaco mi chiama e mi dice: mi piace il tuo modo di scrivere e di esprimerti, ti seguo nel tuo lavoro all'arci, mi piacerebbe che venissi in federazione a farmi la campagna elettorale. e per tre anni sono stato funzionario del pci cesenate, un'esperienza entusiasmante, che mi ha fatto crescere come uomo e come cittadino. ora, purtroppo, c'è rimasto ben poco, il pd mi ha deluso e ho fatto presto a defilarmi. di certo non mi vergogno e non mi vergognerò mai di questa esperienza e di questa militanza.

domenica 4 dicembre 2011

da Alessandro Picone

Guardo con tenerezza una vecchia medaglia, religiosamente conservata. E' l'unica medaglia della mia vita. Quando mi dicevano: ma che cosa ti affanni?.. Ma chi te la dà una medaglia!...Bene, la medaglia l'ho avuta! E' per "I Diffusori dell'Unità". C'è scritto "Il Diffusore dell'Unità è un Organizzatore Politico di Massa"(Togliatti). Beh, con tutto il rispetto per il Migliore credo sia una stronzata!
La diffusione e l'attacchinaggio dei manifesti (attività cui ho dedicato molto tempo della mia militanza PCI), si sono rivelati uno strumento formidabile, ma non tanto per chi comprava il giornale o leggeva i manifesti, quanto per me, che in questo modo testimoniavo la mia partecipazione e la mia fede in un mondo di uomini, senza caporali.
me lo ha fatto ben capire un vecchio compagno, Vittorio De Franciscis ("o' miereco santo"), quando, dietro i fondi di bottiglia dei suoi occhiali, mi diceva: "Non è tanto importante che tu abbia idee belle e nuove; è importante che tu trovi il coraggio di comunicarle e di sostenerne le ragioni, altrimenti non sarai mai un Rivoluzionario, ma, al massimo, un Santo!

da Salvatore Ivone

Attendevo oramai da diversi anni quel momento e quel giorno arrivò.
Adesso non ricordo la data con precisione, ma sarà stata certamente tra dicembre del 1983 e gennaio del 1984. In quell’occasione, era stata convocata la festa del tesseramento per l’iscrizione al partito per il 1984, anno in cui, sia pure a settembre, avrei compiuto i 18 anni, e finalmente potevo prendere la tessera del Partito Comunista Italiano.
La sezione che frequentavo era la “I° Maggio – Materdei” che si trovava in via Salute 108, a Napoli. In quella sede del PCI, nel salone delle riunioni, sul muro c’era un quadro di Emilio Notte. Un enorme dipinto che ritraeva un corteo della Festa dei Lavoratori, tra quelle figure ritratte c’erano molti volti di militanti di quella sezione, ed in quel salone fu fatta la festa del tesseramento. Fu Enzo Pelella, il segretario di quel momento, a darmi la mia prima tessera. Versai la quota di iscrizione al compagno Carmine Rubino, il tesoriere. Quello è stato il giorno più importate per il mio impegno politico, finalmente mi sentivo a pieno titolo un Comunista Italiano.
Fui subito, ma di fatto già lo ero, cooptato nel Comitato Direttivo della sezione e in quell’occasione ebbi anche un incarico di responsabilità. Avrei dovuto occuparmi della “stampa e propaganda”. Mi interessavo per la diffusione dell’Unità, volantinaggi o affissione di manifesti per il quartiere, la zona di nostra competenza. In questo compito ero per lo più accompagnato dal compagno Ciro Colonna, che era provvisto di una Vespa e con la quale potevamo fare incursioni improvvise, affiggere i manifesti in luoghi in cui, per la presenza di fascisti e di altri avversari politici, arrivarci senza quel mezzo, sarebbe stato molto pericoloso.
Uno dei motivi per cui i compagni della “I° Maggio” mi diedero quel compito era che già da diverso tempo collaboravo nella Federazione Napoletana del Partito, proprio nel settore della Stampa e Propaganda. Lì eravamo un gruppo di giovani, “garibaldini”, come spesso amava chiamarci “il Maresciallo” Antonio Cozzolino. Io e altri ci occupavamo della distribuzione del materiale di propaganda alle varie sezione della città e della provincia. In alcune occasioni provvedevamo a coprire di manifesti del Partito, zone della città in cui il Partito aveva difficoltà a farlo.
Uno dei nostri compiti era dare una mano alla organizzazione e alla costruzione delle feste dell’Unità. Proprio quell’anno si svolse la festa Meridionale del nostro giornale. Avvenne lungo il Viale giochi del Mediterraneo, nel quartiere Fuorigrotta, a pochi passi dal Palazzetto dello Sport. Ricordo quel periodo come un tempo particolarmente faticoso. Tornavo a casa raramente, impegnato com’era tra distribuzione di materiale elettorale alle sezioni territoriali, turni, anche notturni, al centralino della Federazione.
La Festa fu chiusa da Enrico Berlinguer, il quale, come sempre faceva, prima del comizio girò per un saluto ai compagni, che quella Festa l’avevano fatta nascere e vivere, lavorandoci gratuitamente, per tanti giorni. Io, il compagno Berlinguer me lo ritrovai all’improvviso, di fronte nel magazzino approvvigionamento. Ricordo ancora la sua stretta di mano, la mia emozione.
Solo pochi giorni dopo, a Padova, durante il comizio di chiusura di quella campagna elettorale, Enrico Berlinguer ebbe un malore, e dopo quattro giorni morì. Era l’undici di giugno.
I suoi funerali si tennero a Roma il giorno13. Da Napoli ci fu una partecipazione enorme di compagni. Nessuno voleva rinunciare all’ultimo saluto al nostro Segretario. Quella mattina toccava proprio a me restare a vigilare la sede della nostra Federazione di via dei fiorentini. Ero addolorato e inquieto come mai. Non riuscivo ad accettare di essere uno dei pochissimi a non essere insieme agli altri compagni. Non facevo altro che pensare d’inventarmi un modo, una possibilità di partire per Roma. Condividevo questa mia disperazione con l’altro al quale era stato chiesto di restare a vigilare, si trattava di Antonio Pastore, il Segretario amministrativo della Federazione. Chiesi proprio a lui di lasciarmi partire. Antonio capì, ma era anche preoccupato per la sede. Ci accordammo che sarei partito solo a condizione che lui si fosse blindato all’interno. E così avvenne. Partii per Roma. Di quelle ore ricordo solo che mi ritrovai in Piazza San Giovanni tra una folla indescrivibile di militanti Comunisti e gente comune, tra tante bandiere rosse e tricolori listate a lutto. Tutti piangevano quell’uomo che era il Capo e la bandiera del Partito Comunista Italiano. L’ultimo suo miracolo fu di quel giorno: diventando la bandiera di tutta l’Italia.
Alcuni anni dopo noi, i “garibaldini” della Federazione, ci ritrovammo a Roma per rendere omaggio, alla tomba di Enrico Berlinguer, con una nostra corona di fiori. Ma in quel tempo era già iniziata un’altra storia.
Ho menzionato solo alcuni compagni, con i quali ho condiviso, il mio cammino. Quello di un giovane, che cresce umanamente e culturalmente, nel mondo del Partito Comunista Italiano. Citare tutti i miei compagni sarebbe impossibile, dovrei scrivere un lungo, interminabile elenco. Ne cito solo alcuni. Per la mia sezione, “PCI Primo Maggio – Materdei”: Matteo Tirelli, Pasquale Maruzzella, e il Prof. Emanuele Salottolo. Di quelli con i quali ho condiviso l’impegno, affetto e amicizia a via dei Fiorentini: Ivan Di Roberto, Carmine Tulino e Paolo Persico.

venerdì 2 dicembre 2011

da Toni Gangarossa

Erano le cinque di mattina, una folta coltre di nebbia ricopriva tutte le case e la piana appariva come un grande mare calmo e bianco. Quella giornata appariva speciale già dalle prime ore e la mia città in quel momento sembrava avere dimenticato gli spari, il sangue e la paura della guerra di Mafia che imperversava per le sue strade, stravolgendola e segnandola per sempre, come una brutta ferita mai perfettamente cicatrizzata.
Il pullman abbordava le curve strette della collina di Caposoprano diretto a Roma, dove un gruppo di studenti delle scuole superiori di Gela avrebbero incontrato il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
Poco importava se in quel periodo imperversava la bufera di Gladio, noi giovani comunisti, partigiani della lotta alla Mafia in una città in mano alla Mafia, sapevamo di scrivere una delle pagine memorabili della storia recente di quella cittadina, frontiera d’Europa. Eravamo in tanti iscritti alla FGCI, ma non eravamo tutti, dunque, avevamo un rispetto sacrale per coloro che non manifestavano particolare attaccamento alla militanza politica. Disponibilità, sacrificio, ma con discrezione, tatto, delicatezza, consapevoli che a Gela la Democrazia Cristiana la faceva da padrona e che se avessimo osato più di tanto personalizzare quella straordinaria idea, non avrebbero nemmeno pagato le spese per il viaggio, giù al Comune.
Quell’idea: scrivere al Capo dello Stato, per chiedere un centro d’aggregazione giovanile,che quando Giusi Polizzi lo disse pensava più allo spazio per amare, per amarsi, che al tempio della lotta alla Mafia. Per alcuni era anche questo la militanza, il luogo della passione, dell’innamorarsi,della provocazione, della libertà, quando questa voleva dire tornare a casa tardi “perché c’è riunione” e tuo padre “compagno” non ti diceva niente. Nessuno credeva che Cossiga ci avrebbe risposto, ma serviva dirlo in giro, perché arrivassero nuovi iscritti in FGCI. Poi, tutto cambiò e quando una sera fui chiamato nello studio di uno degli avvocati più autorevoli della città: l’Avvocato Moscato, che mi consegnò la lettera con cui chiedevano l’istituzione del Tribunale di Gela, capii che avevamo davvero fatto qualcosa di straordinario, talmente grande che noi stessi non riuscivamo a percepirne fino in fondo la grandezza.
Al Quirinale, quella mattina, Cossiga ci chiese se volevamo del succo di frutta, io e Giusi, quasi scoppiammo a ridere, un pò per il nervoso, un po’ perché difficilmente bevevamo succo di frutta; eppure, seduti sul divanetto a due posti in stile antico, con le mani tremanti, il coraggio fu più forte dell’emozione e parlammo per più di un ora delle nostre ragioni, della violenza subita, di un diritto negato: essere giovani liberi e consapevoli che non c’è libertà se non si sconfigge la Mafia.
Il Presidente fu toccato da quel coraggio, forse, dall’ingenuità di fondo con cui rappresentavamo i nostri bisogni, fatto sta, che prese l’impegno di venire a Gela, a trovare gli studenti che reclamavano un centro d’aggregazione giovanile. Così fu. Pochi mesi dopo, in una città incredula e bardata a festa, arrivò a Gela il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il quale, mi consegnò, nelle mie mani, il progetto del palasport polivalente, da utilizzare come centro d’aggregazione. Peccato che passarono oltre dieci anni per finirlo, peccato che alla sua inaugurazione nessuno ricordò l’impegno di quei giovani studenti, peccato che Gela è una città che non ha memoria e forse, proprio per questo, incapace di immaginare un futuro migliore. Di quella stagione rimane soltanto il nome “provvisorio” della struttura sportiva: il “PalaCossiga”.
In fondo, essere stati giovani comunisti, per noi, significava anche questo, fermarsi un passo indietro la spettacolarizzazione. Avere rispetto, fino in fondo, per il valore ideale di una battaglia che a Gela è valso il riscatto dall’etichetta di città della Mafia. Il ricordo di quei giorni in cui Santoro, Costanzo, Enzo Biagi, Nando dalla Chiesa e Giovanni Falcone guardarono a noi con ammirazione e rispetto, valgono molto di più della celebrità di un passaggio televisivo e del sogno di potere dire: diciottenni siamo stati dal Capo dello Stato.

giovedì 1 dicembre 2011

da Ivan Di Roberto

Sono stato iscritto al PCI.
Insieme a tanti altri compagni sono stato sempre nell’apparato tecnico della Federazione Napoletana. Abbiamo prestato la nostra opera, con abnegazione e sacrificio, con altruismo e disciplina, sempre a favore della sicurezza di uomini è beni del PCI.
Abbiamo fatto quelli che altri compagni non volevano mai fare, siamo andati dove tutti si rifiutavano di andare, abbiamo portato a termine quello che gli altri si sognavano di fare. Abbiamo sedato animi indemoniati e smascherato finti angeli.
Abbiamo ascoltato cose che nessuna intercettazione potrebbe emulare, visto fatti che nessuna telecamera riuscirebbe a riprendere.
Abbiamo affrontato indescrivibili rischi senza pretendere mai nulla in cambio, sempre nell’ombra, con umiltà e tenacia. Abbiamo dato tutto il nostro impegno, il nostro amore, la nostra professionalità, quasi sempre ricompensati con un semplice grazie, che ci gratificava più di ogni altra cosa.
Nei momenti drammatici vissuti non potevamo permetterci il lusso di rimanere scossi o versare lacrime, spesso riusciva ad indebolirci solo la stanchezza.
Grazie alla formazione del PCI, sia a livello nazionale che locale, spesso paragonata al ministero degli interni, siamo stati sempre in grado di tutelare uomini e donne ritenuti a rischio. Da Berlinguer all’ultimo segretario di sezione, da Pio La Torre a M. Valenzi, da A. Natta a Bassolino, da P.Ingrao a N.Jotti . E’ poi le feste dell’Unità, i convegni internazionali, le manifestazioni le strutture di partito. La nostra presenza tranquillizzava tutti, la vita di tanti esponenti veniva consegnata nelle nostre mani, mentre i dirigenti si concedevano completamente con estrema fiducia.
Grazie a tanti compagni di quel PCI, molti dei quali non ci sono più.

da Umberto Radin

La riunione era stata convocata d’urgenza con il solito passaparola, già, i cellulari mica esistevano….
Era una sera d’inverno del 1976 e io avevo 18 anni, il freddo era pungente come solo a Torino riesce ad essere, l’aria sapeva di officina e di nebbia. Camminavo veloce verso quel cavalcavia che unisce il quartiere operaio dove sono nato, Barriera di Milano, con un ‘altro quartiere operaio, Borgo Vittoria, lì esattamente in via Chiesa della Salute c’era la Federazione del PCI..
Arrivo in Federazione e la riunione è appena iniziata , il segretario Provinciale della FGCI, mi guarda con una smorfia di disappunto per il ritardo, la riunione è nervosa, veloce, gli interventi si succedono rapidi ; non è una riunione di quelle un po’ liturgiche con relazione fiume , interventi e conclusioni cadenzate ed un pò scontate, è una riunione vera, si deve decidere come organizzare uno sciopero d’ emergenza in risposta ad una aggressione fascista, avvenuta a Milano.
Noi figiciotti, avevamo non solo il problema di dare “politicamente” la risposta giusta, ma anche quello, ben più complicato, di non lasciare la gestione della piazza ai soli gruppi extra- parlamentari, Lotta Continua, in primis. Quindi, decise le modalità organizzative ed i contenuti politici dello sciopero, non ci rimaneva che ciclostilare i volantini e farli arrivare in tempo ai responsabili delle cellule delle Scuole di Torino.
Ci aspettava una lunga notte, in Federazione non si potevano ciclostilare i volantini per tutte le Scuole, così io e Davide Padroni, l’uno responsabile della Zona Nord, e l’altro della Zona Centro decidemmo di andare nella mia sede per produrre i volantini e far un po’ di telefonate, ben sapendo che ormai passata la mezzanotte, in alcune famiglie “Borghesi”, non inclini alla pratica e militanza comunista, avremmo creato dei problemi, fra genitori e giovani figiciotti.
La Zona Nord della Fcgi si trovava nel cuore del quartiere operaio, il silenzio della notte veniva interrotto solo dal rumore del nostro ciclostile, non proprio silenzioso, io e Davide ci guardavamo nervosi e trepidanti, non avevamo affatto la certezza che i compagni sarebbero venuti a ritirare i volantini, poi la porta incomincio a cigolare ed assonnato entrò il primo compagno, dopo di lui altri ed improvvisamente la sede incomincio a riempirsi di compagni che volevano sapere, discutere, organizzare la manifestazione che ci attendeva.
Alle 4 del mattino, potevamo dichiararci soddisfatti, mancavano all’appello solo quattro scuole, evidentemente dopo le nostre telefonate, in quelle famiglie aveva vinto la reazione, ed i figli rivoluzionari non erano riusciti a convincere i genitori della bontà dell’azione a cui erano stati chiamati nel cuore della notte.
Così presi i pacchi di volantini, ci incamminammo verso quelle Scuole che il destino voleva escludere dalla lotta e dallo sciopero.
Per decenza, non racconto gli argomenti di conversazione che accompagnarono la nostra gloriosa marcia per il centro di Torino, né tanto meno, dove e come nascondemmo i volantini che occorrevano poche ore dopo, per non essere spiazzati dal volantinaggio che i “gruppettari” avrebbero sicuramente svolto in solitudine se non ci fosse stato il nostro eroico sacrificio.
Il giorno dopo fu un successo, la Fgci fu protagonista di quella manifestazione e noi potemmo andare a dormire orgogliosi e soddisfatti.

da Antonio Solano

Sono stato iscritto al Pci, perchè nipote di 'Partigiani' e perchè nella sez. Lenin era iscritta una compagna ,che scriveva sull'Unità, molto carina! Avevo anche due obiettivi politici motivanti : un mercatino rionale ed un edificio pubblico del centro storico. Per costruire il mercatino il Comune ha impiegato circa 20 anni, ed ora è in stato di semi-abbandono. L'edificio pubblico da ristrutturare invece , non è stato mai completato, ma occupato a più ondate da abusivi. Ed anche il 'Rinascimento' è trascorso invano. Sic!

da Rita Ferraris

Sono nata nel 1931 in una famiglia di operai, mio papà comunista e sappista alla Nebiolo di Torino dove lavorava durante il periodo della Resistenza. Sono stata iscritta al PCI dal 1945 sino alla Bolognina. Nella mia gioventù ho condiviso sia nel partito comunista che negli organismi collaterali, FGCI e circolo ricreativo tutte le varie fasi di lotte e conquiste per la classe operaia.
La sezione 32° di Torino è stata per me il luogo in cui ho iniziato a confrontarmi con gli altri e in cui ci riunivamo per discutere sui massimi sistemi, magari esagerando, ma che ci hanno aiutato a crescere. Ho venduto, con i miei compagni, l’Unità casa per casa come si usava allora ed ho continuato a fare attività in tutte le varie fasi della mia vita. Lotte sindacali, decreti delegati nella scuola e soprattutto la consapevolezza che essere comunista per me era raggiungere uno stato sociale di eguaglianza e libertà per tutti. Naturalmente ci sono state parecchie disillusioni, ma in fondo al cuore ero e rimango comunista.
Ricordo più commovente, il primo maggio del 1945, quando ci fu il primo corteo dei lavoratori con i partigiani che erano scesi dalle montagne.
Ricordo piacevole, la partecipazione a un soggiorno organizzato dal PCI a Cervinia nel 1946, in cui conobbi Umberto Terracini, e il figlio di Togliatti insieme a molti altri grandi dirigenti del nostro Partito.
Ricordo impegnato, la partecipazione alla formazioni di liste democratiche nella scuola in rappresentanza dei genitori quando nacquero i Decreti Delegati. Nel 1974, anno della prima votazione per i DD, quando mia figlia frequentava la scuola media, passammo la notte in macchina davanti alla scuola per presentare la nostra lista come faceva il PCI per essere “il primo a sinistra”. In realtà la nostra era l’unica lista e prendemmo comunque un mare di voti. In tale occasione conobbi moltissime persone che ebbero fiducia nelle mie idee comuniste tanto che ebbi un notevole numero di preferenze quando mi presentai candidata al Comune di Torino nel 1975, seppur non sufficienti per essere eletta.
Ricordo triste, lo scioglimento del PCI e la conseguente diaspora di compagni in più partiti di sinistra che non riescono a coagularsi in una nuova forza che porti avanti i valori e gli ideali della sinistra democratica e dei lavoratori (esistono ancora).

Sono fiera di aver avuto dei genitori comunisti , di essere vissuta da comunista e di aver trasmesso anche a mia figlia questo ideale.

mercoledì 30 novembre 2011

da Fabrizio Rondolino

L’anno doveva essere il 1977, l’anno della rivolta giovanile contro il Pci; avevo 17 anni e a Torino ogni corteo finiva male, e noialtri della Fgci finivamo quasi sempre per prenderle. Però bisognava “stare nel movimento”, secondo la linea di allora, e dunque insistevamo caparbi.
Come responsabile della cellula del mio liceo, l’Alfieri, avevo diritto ad una copia della chiave della sezione del partito. Al piano terra della Garibaldi c’era un circolo Arci, dove avevamo l’abitudine di bere frizzantino e consumare quintali di noccioline americane; al primo piano c’era la sala riunioni.
Un pomeriggio salii con Silvia, la mia fidanzata. A quei tempi stare un po’ da soli era sempre un problema: le mamme erano casalinghe e i papà erano severi (quello di Silvia, oltretutto, leggeva il “Giornale” di Montanelli). A volte ci rifugiavamo nell’appartamentino di mia nonna, che d’estate viveva in campagna: anche di quello custodivo una chiave, ottenuta però illegalmente. Il sabato sera s’andava tutti a casa di Marco, dirigente della Fgci, perché i suoi genitori partivano per la montagna; la casa era grande e, ad un certo punto della serata, dal salotto alcuni di noi passavano alle stanze.
Ero insomma nella sala riunioni della mia sezione – libreria con i classici del marxismo, ritratto di Gramsci alla parete, bandiere arrotolate in un angolo, scrivania di legno e sedie di varie fogge, pile di volantini avanzati – insieme alla mia ragazza – bellissima, non iscritta ma simpatizzante, attiva nel Collettivo femminista della nostra scuola – quando sentii la serratura scattare e la porta improvvisamente aprirsi.
Era il segretario di sezione in persona.
Per me, fu come essere sorpreso dal vescovo a mangiare la cioccolata nel tabernacolo. Raramente nella vita ho provato tanta vergogna, tanto imbarazzo, e tanta indegnità. Come potevo disonorare in quel modo una sezione del grande Partito comunista? Silvia era anche più imbarazzata di me, ma aveva il vantaggio di non avere la tessera. Mentre uscivamo più rossi di una bandiera, Paolo, il segretario, mi disse con un tono insieme fraterno e severo che era successa una cosa del tutto normale, ma che era meglio non farla più in sezione.
Passeggiammo per corso Dante fino al Valentino, Silvia ed io, senza scambiarci troppe parole; poi lei prese il tram per tornare a casa. Attraverso il finestrino che s’allontanava la vedevo ridere, e anch’io scoppiai in una risata allegra e definitiva. Ero felice di stare con Silvia, ero felice di stare nel partito.

da Mariuccia Cadenasso

Sono cresciuta in una famiglia di iscritti al PCI. E in una strada, in un caseggiato, di iscritti al PCI. Zona operaia, qualche socialista e tutti PCI. Quando sono andata a scuola ho fatto fatica a capire che il mondo non fosse fatto di comunisti.
Molti dei ricordi della mia infanzia sono legati alle feste dell'Unità, alle serate con le compagne sedute nella mia cucina ad arrotolare biglietti della lotteria su lunghi chiodi e a fermarli con un "anellino" di pasta, di quella da brodo.
Per le elezioni, ho fatto tutta la trafila: staffetta, rappresentante di lista, scrutatrice. E ho frequentato tutti i "gradi" dell'organizzazione: pionieri, FGCI, PCI.
Un unico momento di "sbandamento": il '68... Sono sempre stata un po' ribelle e contigua ai compagni della sinistra extraparlamentare con cui avevo vissuto quel momento, ma il Partito era il Partito.
E al Partito devo tutto. Nel Partito ho imparato a scrivere a macchina e a usare il ciclostile. Nel partito ho imparato a parlare con davanti un pubblico. Il Partito mi ha stimolato a imparare lingue straniere, perché alle Feste dell'Unità o di Nuova Generazione c'erano le delegazioni estere con cui confrontarsi. Nel Partito ho imparato il rispetto per gli anziani, portatori di esperienze e di valori. Ma ho imparato anche a non avere soggezione: il tu si dava a tutti, giovani e vecchi, senatori e operai., militanti e sindaci. Tutti uguali.
Incontrare per lavoro Fassino a un convegno quando era Ministro degli esteri e dargli del tu e non provare la minima soggezione. Essere ricevuta da Pertini con un gruppo di studenti quando era Presidente della Camera e chiamarlo "compagno". Molto rispetto, ma nessuna riverenza.
Nel Partito sono diventata una persona, ho acquisito valore e valori, ho imparato cose che mi sono servite anche nella vita di tutti i giorni.
E le Feste dell'Unità.... per me sono state i pranzi di Natale in cui una famiglia, una grande famiglia, la mia grande famiglia allargata, si riuniva e viveva insieme i giorni della festa.

da Nicola Calcagno

Studiavo a Ferrara ,1961,entrai nella Federazione PCI,storica sede in via Ariosto.Un amico mi aveva invitato a catalogare con altri giovani materiale da donare agli algerini.Trovai molti ragazzi che raccoglievano e smistavano medicinali da inviare ai ribelli in Algeria.Rimasi con loro,dopo qualche giorno mi tesserai alla FGCI.Nel 1964 presi la tessera del PCI.Grande partito.Grandi personalita'si confrontavano,grandi eventi in quegli anni...Papa Giovanni,la Pacem in Terris,Kruscev e Kennedy,il blocco a Cuba,Guevara.....grandi ideali....Campagne elettorali...Cammina coi tempi,cammina con noi.Dirigente della FGCI ferrarese,candidato UGI...poi il trasferimento in Basilicata,il partito contadino,i braccianti morti durante l'occupazione delle terre...l'esperienza di consigliere regionale nella regione di Nitti e Fortunato.La Basilicata di Amendola,Chiaromonte,Napolitano,Ranieri e Velardi.....Schettini e Di Siena. Grande esperienza,grande scuola,non ho nulla di cui pentirmi....Il rimpianto?Certo per le cose che non si ripetono.Nessuno per un grande partito che pero' avrebbe dovuto svoltare 10 anni prima....che non ha voluto o saputo camminare fino in fondo coi tempi.

da Sergio Duretti

Ho tre flash molto nitidi del mio rapporto con i comunisti e con il
Partito Comunista.
Il primo è di fine anni settanta. Ero già grande - ovvero maggiorenne
- ma a scuola ero stato quello che si dice un "cane sciolto" in un
Liceo in cui non c'era praticamente la FGCI e dominava ciò che
rimaneva di Lotta Continua.
Mi ero impegnato senza etichette ma in quella zona grigia tra
università e lavoro - che sarebbe iniziato dopo pochi mesi - decisi
una sera di varcare la porta di una sezione del PCI.
Stava a meno di 300 metri da casa mia e mi ricordo che quando entrai
vide un moto tra la sorpresa e la curiosità che uno sbarbatello
arrivasse così.
Il bello del "grande partito comunista" era che trovarlo era facile.
Io che vivevo in una città della periferia torinese diventata grande
per le fabbriche e per dare una casa agli operai lo potevo trovare
ovunque. Altro che una sezione ogni campanile. Lì le sezioni erano
almeno il doppio se non il triplo dei campanili.
Mi ricordo che partecipai quella sera a una riunione sul Piano
regolatore generale - allora era un tema caldissimo - e per quanto ne
capissi poco o nulla, avvertii che chi c'era non si ponava problemi
circa la presenza di uno mai visto. Fu l'inizio di un percorso che
dopo 5 anni mi portò fare il consigliere comunale ma questa è un'altra
storia.
Il secondo flash è di metà degli anni ottanta e mi permette di (far)
comprendere meglio cosa significava essere comunisti. La cosa
raccontata oggi è anche divertente ma al tempo fu tragica. In sostanza
comunico a mio padre - che così indirettamente ricordo - che ho deciso
di lasciare la mia storica fidanzata del liceo. Lui che si era fatto
chissà quali idee su unioni e prossimi nipotini - ndr per inciso avevo
23 anni - commenta furibondo la cosa lanciandomi l'anatema per lui più
tremendo: "da questo momento non potrai più dirti comunista". Io cerco
di spiegargli che cosa cavolo c'entra una scelta personale con
l'essere o meno comunisti ma lui è irremovibile. A lui togliattiano e
poi berlingueriano di ferro anche soltanto il venir meno a un
"fidanzamento" suona come una tremenda colpa. Non mi ha parlato per
una settimana e poi se ne è fatto una ragione, ma la dice lunga sui
comunisti diventati tali dopo la Resistenza e forgiatisi negli anni 50
e 60.
Il terzo flash è di fine anni ottanta. Per quelle strane combinazioni
che ti riserva la vita approdo a Botteghe Oscure - anche se
l'indirizzo della FGCI era via Ara Coeli - nella nuova FGCI nata dopo
il Congresso di Napoli del 1985. Sono anni belli che cambiano
profondamente il mio modo di vedere le cose. E' l'incontro con persone
e lingue nuove - io che arrivo dalla città industriale per antonomasia
-, è la scoperta del Sud e delle sue meravigliose persone, è il
tentativo di costruire nuovi ponti tra diverse culture che per me
trova la massima espressione (incompiuta) nella realizzazione della
Rete delle coerenze operose - titolo del Congresso dei Circoli
territoriali del 1990 - che a inizio anni 90 prova a tessere un nuovo
rapporto tra la politica e la società di chi opera nel volontariato,
vicino a vecchie e nuove povertà. Ma è anche l'esperienza che mi fa
comprendere perfettamente che desidero tornare a fare un lavoro nella
società aggiornando quello che ho lasciato appena 3 anni prima, che
desidero continuare a occuparmi di ciò che mi circonda e che lo posso
e lo voglio fare proprio perché l'esperienza che ho avuto la
possibilità di fare e a cui ho dato tanto - in tempo, in passione - mi
ha restituito tanto e ha fatto di me una persona che si sente
migliore.

martedì 29 novembre 2011

da Fernando Bruno

Mi sono iscritto al PCI nel 1979, a diciannove anni, dopo due anni di segreteria del circolo FGCI. In pratica fui obbligato ad abbandonare di corsa i giovani e ad iscrivermi al partito perché il direttivo di sezione (diceva) aveva bisogno di risorse nuove. Avevo diciannove anni. Un anno più tardi fui eletto segretario. Improvvisamente, a vent’anni, mi venne chiesto di diventare maturo e pensoso, per dirigere la politica del partito in un quartiere di ventimila abitanti. Avevamo il 40% per cento dei voti e controllavamo, come si diceva allora, tutte le organizzazioni di massa presenti ed attive sul territorio: il centro anziani, la polisportiva, il comitato per il verde, la cooperativa di consumo, la consulta scuola. Di ognuno di questi organismi, vissuti e partecipati da decine e decine di cittadine e cittadini, esprimevamo il presidente. Tutti loro erano membri del direttivo della sezione, ed io ero il loro segretario. D’improvviso mi si chiese di diventare esperto di politiche urbanistiche, di politiche per gli anziani, di politiche per la scuola. Poi dovevo incontrare e trattare con le altre rappresentanze dei partiti sul territorio; scrivere di mio pugno ogni testo, manifesto, volantino che usciva dalla sezione; rappresentare il partito nelle occasioni pubbliche; far parte degli organismi cittadini aperti ai segretari di sezione. En passant, in federazione dovevo ogni volta spiegare alla vigilanza che sì, ero lì per l’attivo dei segretari…che no, non ero della fgci…, che sì, ero segretario di sezione. Per un anno e mezzo (il tempo della mia esperienza da segretario, poi scappai via perché volevo studiare…) misi da parte l’università e mandai in malora la mia collezione di tex willer; abbandonai la palestra e il calcio; per i libri e la musica tempo solo il fine settimana e la fidanzata (naturalmente una compagna della sezione…) solo nel breve spazio lasciato libero dalle interminabili riunioni notturne. Eppure mi sentivo normale. Normalissimo. Un pesce nell’acqua. Ed era acqua buona. Piena di ossigeno e di vita. A pensarci oggi, mi sembra impossibile quel disinteresse, quell’entusiasmo, quel sacrificio di sé che consumavamo in allegria trascinandoci da una riunione, ad un’assemblea pubblica, da un attacchinaggio ad un volantinaggio, da un presidio al mercato a una delegazione in circoscrizione. Eppure, io e buona parte di quei miei compagni d’avventura, la gran parte giovani come me, eravamo ironici e felici, certi che ne valesse la pena, mai troppo compresi del ruolo di leaderini in carriera. E poi c’erano i vecchi. Vecchi meravigliosi. Meravigliosamente colti e saggi. Straordinariamente disinteressati. Allegramente poveri. Non tutti i ricordi che ho sono belli, naturalmente, ma conservo vivida memoria di una dimensione umana irripetibile. Stavamo in sezione come a casa. E ovunque ci trovassimo, in italia, sapevamo che bastava trovare la sezione del PCI e saremmo stati a casa. E trovare l’idraulico, il muratore, il meccanico, il carrozzerie, non era un problema. C’era sempre un compagno che diceva, questo posso farlo io…Ovviamente non si stava lì perché ci piaceva farci compagnia o per sfuggire alla solitudine. Anche se fatalmente tutto accadeva là attorno, gli amori, le passioni, le amicizie.. si stava lì perché bisognava cambiare il mondo. Sapevamo tutto di indocina ed america latina. Avevamo opinioni su ogni tema di politica interna e ci sforzavamo di capire persino cosa fosse lo SME e cosa implicasse per le politiche economiche e finanziarie nostrane. Quell’esperienza dentro al PCI non ha cambiato il mondo, meno che meno l’Italia, ma ha certamente cambiato molti di noi che l’anno fatta. A me ha insegnato a sostenere sempre le mie idee con entusiasmo e passione, a non scendere a patti con i miei principi, a sacrificare qualche interesse personale per non cedere a compromessi inaccettabili, a sentirmi vivo e vitale, e fiero di essere stato iscritto al PCI.

da Flavio Martino

“Nato dentro…”

Con autoironia amo spesso parafrasare una canzone di Jannacci “Sa dov’è l’idroscalo? Si, ci son nato dentro…” Nella mia versione diventa “ Si che ho conosciuto il Pci, ci sono nato dentro...!”

In effetti è proprio così.

Sono nato ad Alba il 5 agosto del 1960. La notizia che non sarei stato battezzato e che quei genitori erano dei comunisti che ritenevano che avrei dovuto scegliere io a cosa credere una volta raggiunta l’età della ragione, scatenò le ire di qualche prete che (in nome di cristo misericordioso naturalmente) si affrettò a ricordare nelle messe di quei giorni che ai bambini non battezzati era riservato il fuoco eterno dell’inferno… Beh, grazie dell’augurio: eppoi qualcuno sostiene che sono troppo anticlericale.

Per spiegare meglio come sono “nato dentro” dovrei ricordare i contorni politici del matrimonio dei mie genitori. Primo matrimonio civile nella storia del paese (gente che attendeva davanti alla chiesa e loro in municipio)… e tra i presenti Walter Audisio (allora deputato del Pci) ma conosciuto come il “giustiziere di Mussolini” almeno così recita la storia ufficiale del Partito (chissà se un giorno dal ventre del vecchio partito uscirà la vera verità???). 1956, l’Urss invade l’Ungheria reprimendo ignobilmente il governo di Imre Naghy, colpevole di rivendicare autonomia dai sovietici e maggiore libertà per gli ungheresi. Dal Partito Comunista Italiano (che appoggia la repressione sovietica) escono per protesta (o vengono espulsi) alcuni dirigenti migrando in buona parte nel Partito Socialista. Tra questi il deputato Cuneese Antonio Giolitti (nipote del vecchio liberale) che nel suo migrare verso il Psi viene seguito da quasi tutto il gruppo dirigente provinciale di Cuneo, oltre che da un terzo dell’elettorato. Mio padre faceva il Barbiere a Ceva e gli venne chiesto di chiudere bottega e andare a fare il funzionario a ricostruire il partito in quel di Alba. Per questo sono nato lì, per questo con ironia dico “ci son nato dentro al Pci” quel 5 agosto del 1960, nemmeno un mese dopo i morti del governo Tambroni e forse proprio in quei giorni caldi Fausto Amodei sistemava le note della canzone “Per i morti di Reggio Emilia”.

In questo primo spezzone che comprende i primi vagiti della mia vita (e qui intendo fermarmi) penso sia condensato molto di quello che è stato il Pci. Nel bene e nel male.

Il male è facile indicarlo. Doloroso, senza attenuanti, deflagrante, come il motivo della sua fine. L’Ungheria, la repressione della libertà nei paesi allora definiti “socialisti, dove non i padroni ma i lavoratori erano al potere”. L’Ungheria, nel pieno della destalinizzazione, cioè di una fase di ripensamento e comunque di denuncia degli orrori terribili delle purghe staliniane, dell’ammissione indiretta di un sistema tutt’altro che perfetto. L’Ungheria come prima vittima di un lungo elenco di repressioni sanguinarie compiute nel nome del comunismo e “dell’internazionalismo proletario”. Certo il mondo era diverso, c’era la guerra fredda, Yuri Gagarin andava nello spazio, Fidel Castro vinceva a Cuba contro “l’Imperialismo americano”, iniziava l’epopea del Vietnam. L’Europa unita non esisteva, anzi in Spagna e Portogallo c’era ancora il fascismo di Franco e di Salazar, ma una cosa rimane certa e appare nitidamente come la ragione di una storia che non poteva continuare oltre l’89. Non c’erano e non ci sarebbero più state attenuanti. Difendere quel socialismo realizzato o non rinnegarlo totalmente negli anni successivi avrebbe voluto dire affondare con lui!

Il bene era l’oggettiva diversità del Pci. Quello spirito palpabile nella vita e nei sacrifici di migliaia di dirigenti e militanti. Quel sentirsi parte di una cosa della storia che riscattava l’umanità. Palpabile ai funerali di Togliatti come, ancora di più perché in tempo ormai avanzato, a quelli di Berlinguer. Eravamo tutti li. In tanti fisicamente, tutti col nostro cuore. Ecco, i nostri cuori erano un’attenuante, migliaia di azioni positive che intendevano correggere quelle distorsioni tenendo così accesa una fiamma di speranza. La politica la vivevi col cuore e con la ragione. Riscattare le classi meno abbienti era un dovere morale permanente. Il Pci faceva emergere la parte migliore di noi. La politica di questi tempi fa esattamente l’opposto e chi ricerca ancora quella dimensione, pur con gli occhi e contenuti di questo tempo, viene sconfitto, rimane deluso o diventa marginale.

Tante le domande, tanti i “se” malriposti. Poche le risposte!

Quando ero “giovane e comunista” ho avuto la fortuna di vivere l’esperienza della Fgci degli anni ottanta. Eravamo dentro il Pci ma in modo autonomo. Dissentivamo su molte cose tra cui l’affermare il diritto al dissenso senza che questo dovesse provocare alcuna conseguenza in un partito che si dava regole democratiche. Purtroppo i germogli di quell’esperienza non fecero in tempo a diventare frutti. Gli eventi stravolsero tutto compreso il tentativo riformatore di Gorbaciov che ne fu il motivo scatenante. Dopo, il mondo che ci trovammo davanti pensavamo potesse solo migliorare. A prescindere dalle diverse fortune personali e dai progressi tecnologici, così non è stato.

da Osvaldo Cammarota

Accadde in Via Pigna a Napoli, il 10 maggio del 1983, a me e ad altri Assessori della Giunta Valenzi, tra i quali Andrea Geremicca, all'epoca anche Deputato del PCI. Per i dettagli rinvio alla stampa dell'epoca. "Come ai tempi di Scelba" titolò, tra gli altri, l'Unità. Eravamo al servizio dello Stato e vicini ai senzatetto. Fu forse questa la colpa che ci colpì?

Eravamo un braccio dello Stato per fronteggiare un'emergenza causata dal terremoto del 1980 in un contesto a dir poco inquietante: 35.000 famiglie sgomberate dai loro alloggi (quasi tutte povere e numerose); le Brigate Rosse puntavano sul disagio popolare per seguire le loro strategie "rivoluzionarie"; noi nel mirino delle BR, come altri politici e amministratori già feriti o uccisi; un'intera città sull'orlo del collasso. Uno Stato impreparato a fronteggiare simili disastri ci autorizzò a requisire temporaneamente gli alloggi sfitti. Noi lo facemmo, a vantaggio di chi aveva perso tutto. Il governo dell'epoca, attraverso Zamberletti, riconobbe che se non ci fosse stato il PCI al governo della città, a Napoli ci sarebbe stata la rivolta.
Nel frattempo però, un altro braccio dello Stato ritenne di eseguire con violenza una sentenza di sfratto degli alloggi requisiti e occupati dai terremotati. La sentenza fu emessa da un giudice che, evidentemente, non era informato dei fatti o era reso cieco e sordo dalla potenza del ricorrente.
Che dovevamo fare? Noi ci mettemmo in mezzo, per cercare di spiegare la situazione e ricercare soluzioni più praticabili. Nulla da fare. Gli apparati esecutivi della Polizia ebbero la mano pesante, la carica travolse persino i loro colleghi della Digos, in borghese incaricati di proteggerci dalle BR.

Questo "mettersi in mezzo" -persino fisicamente- era uno dei tratti che faceva del PCI un Partito moderno e Costituente della società italiana. Seppur con tanti limiti e contraddizioni interne, il PCI esprimeva la sua vocazione di governo nel tentare di risolvere le contraddizioni della società.
Si comprenderà che, all'epoca 28enne, cominciai a nutrire qualche dubbio sulla unitarietà dello Stato, sulla uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.... ma eravamo convinti -e per quanto mi riguarda lo sono ancora- che la ragion d'essere di un Partito è proprio quella di risolvere le contraddizioni e i conflitti sociali, non certo di riprodurli al suo interno.

L'unica soddisfazione l'ho avuta 12 anni dopo, quando un mio collaboratore, apprezzando come svolgo il mio attuale mestiere di Operatore di Sviluppo Territoriale mi confessò: "Osvà, eppure io ero uno di quelli che ti doveva sparare ...". Ma questa è un'altra storia. Il PCI già non c'era più.

lunedì 28 novembre 2011

da Roberta Filippini

Ricordi minimi del 1978. Ero una "comunista con la valigia", mandata a Benevento (per dar prova di capacitá in vista di successivi incarichi, ma allora non lo sapevo). C'era un turno di amministrative, dovevo chiudere la campagna elettorale a San Leucio del Sannio, piccolo comune vicino Ceppaloni, nel feudo di Mastella: in piazza erano stati eretti due palchi e lui se ne stava tronfio e sicuro su quello della lista di destra, insieme con un senatore missino, non ricordo il nome. Io ero sul palco di fronte, lista unitaria di centro-sinistra molto allargata: era stata imposta dai giovani della sezione, io ero lì per sostenerli. Parlò il senatore, grandi parole, parlò Mastella, grandi applausi. Poi la gente si voltò verso di noi, scettica: che ci faceva quella ragazza là sopra? Vedevo qualche bellimbusto ridacchiare, capivo che tutti aspettavano di assistere allo spettacolo della nostra umiliazione. Invece il giovane compagno fu bravissimo e anche io: mi sentivo Davide contro Golia, attaccai i notabili con ironia (genere orazione per giulio cesare...ma Bruto è un uomo d'onore). Insomma, ve la faccio breve, vincemmo perfino. Mastella fu sconfitto per la prima volta, a casa sua. Chi avrebbe mai previsto allora il suo successivo percorso politico!
Stessa campagna elettorale, sempre nel Sannio. Per il comizio mi portarono a casa di un compagno che abitava sulla piazza: avevano messo la bandiera sul balconcino della camera da letto, dovevo parlare da lì. Era sera, ero stanca, chiesi di poter andare prima in bagno, mi indicarono un pitale vicino al letto e tirarono una tenda. Feci la mia prima pipì comunista.
Il 1978 fu comunque un anno durissimo. Il rapimento di Moro, la democrazia in pericolo, bisognava orientare subito tutto il partito (qualcuno nel Pci aveva perfino festeggiato la notizia di via Fani): partì subito una campagna di assemblee e comizi, a tappeto. Una domenica ventosa di marzo io dovevo parlare a una piazza semideserta di non ricordo quale paese. Ad ascoltarmi era venuta una mia amica, intellettuale snob di sinistra, che voleva mostrare a un professore francese suo ospite come erano affascinanti le zone interne della Campania e come era liberal il nostro grande Pci, a differenza del loro settario Pcf. Feci il mio discorso a quattro gatti, con il maggior entusiasmo possibile. Attaccarono la musica di chiusura del comizio, ma con grande stupore mi accorsi subito che si trattava di "Addio Lugano bella, o dolce terra mia, cacciati senza colpa gli anarchici van via". Scoppiai a ridere. Il Pci era anche questo.

da Manuele Braghero

Sono nato Torino nel ‘61 e cresciuto nel quartiere operaio di Borgo Vittoria, ho studiato all’Istituto Professionale “Zerboni”. Per quelli della mia classe un passo avanti. Il PCI ha rappresentato per me la voglia di crescere ed emanciparsi come fatto collettivo e non individuale. Nel 1975 ho chiesto la tessera della Federazione Giovanile Comunista Italiana. Niente ideologia o dottrina. Non sono mai stato comunista contro qualcuno. Mi divertivo. Mi piacevano le feste dell’Unità, vivere quella comunità popolare dove discussioni serissime e l’espressione delle nuove tendenze della musica convivevano. Gente di tutte le età, operai che venivano a fare i volontari dopo 8 ore in fabbrica. Un popolo enorme frequentava queste feste, venivano anche il dottore o i figli del padrone della fabbric. Ho imparato “mestieri” volontari: cucinare, gestire uno stand, organizzare il lavoro. Ricordo l’impegno per innalzare la qualità delle scuole operaie: per ottenere la palestra e il diritto ad uno studio più completo. Sono stato il “leader” degli studenti medi delle scuole professionali di Torino. Non di tutti, di quelli “democratici” e comunisti, perché esisteva una solida componente movimentista: Lotta Continua, Avanguardia operaia, democrazia proletaria. Esisteva anche l’“Autonomia” che si muoveva in una fascia grigia tra estremismo politico e terrorismo. Erano anni di forte protagonismo giovanile ma anche di violenza politica. Di giovani morti nelle scorribande notturne dei fascisti e, sul fronte opposto, dei sedicenti compagni. Un gruppo di questi diede fuoco a un bar “di destra”, l’Angelo Azzurro (ma che vuol dire un bar di destra alle 11 del mattino?) un ragazzo si trovava all’interno e morì bruciato. Giovani si sono rovinati la vita, finendo nel terrorismo, facendo danni gravi a sé e ad altri. Poi ricordo la lotta alla droga. Con qualche prete e qualche compagno dell’ARCI ho provato anche io a dare una mano. Ragazzi mi venivano affidati la mattina e ripresi la sera. Dare fiducia e provare a riceverne il mio obiettivo. Mi ricordo la loro giovinezza e la loro voglia di venirne fuori. Chissà come sono ora. So solo che sono la metà: per uno che ne veniva fuori uno ci ricascava e il suo destino era segnato: overdose. Ero da due anni il responsabile dell’organizzazione regionale del Piemonte quando, alla vigilia di natale del ‘83 mi chiamarono da Roma e mi chiesero di andare a fare il “commissario” della Federazione giovanile di Catania. La sera del 5 gennaio ero a Catania a fianco di Claudio e dei ragazzi della redazione dei “I Siciliani” a ricordare suo padre, Pippo Fava, assassinato dalla mafia. Rimasi in Sicilia fino all’estate dell’85 e poche settimane dopo ero a fare il segretario del PCI della Val di Susa. A un funzionario del PCI poteva succedere di mettere 1700 km tra due funzioni politiche “confinanti”. Queste esperienze hanno fatto di me l’uomo che sono ma non guardo indietro. I partigiani, compagni senza fama e uomini come Pajetta, Pecchioli o Comollo, collaboratore di Gramsci all’”Ordine Nuovo” , mi hanno insegnato la forza della determinazione e la fiducia nei giovani, nel futuro. Ho imparato a battermi per la giustizia sociale e la libertà, non per conquistare, sgomitando, qualche strapuntino di potere personale. Questo è quello che ho imparato dagli operai comunisti, che lottavano ma quando erano al lavoro amavano farlo bene, con serietà e perizia. Quelli così per me erano i comunisti italiani e io mi sento ancora uno di loro. Non lo vivo come un limite ma come una libertà. So bene che non erano tutti così, ma è da quelli così che io ho provato ad imparare.

domenica 27 novembre 2011

da Giuliana Trucco

"E' la figlia di Chichin, come non lo conosci? Si, e' quel comunista, ma e' una brava persona."
Quanto mi rimaneva nelle orecchie quel "ma", ero piccola e non sapevo darmi una spiegaazione,
Era vero mio papa' e stato un comunista e un sindacalista sino al midollo e bastava parlare con lui perche' con orgoglio si definisse "comunista": Lo aveva fatto anche con mamma cresciuta con le suore e con una educazione che i "comunisti mangiavano i bambini"
Ricordo che ogni domenica era la stessa storia, lui che andava a vendere porta a porta l'Unita' e qualche copia la regalava e arrivato a casa dovevva far quadrare i conti anche con mamma.
Ricordo che quando ho fatto la prima comunione mi ha speigato che non sarebbe venuto in chiesa perche' non credente e non le sembrava giusto essere li' solo per la mia festa
Ricordo quando e' stato contento quando ha visto la mia prima tessera del PCI
Ricordo la sezione con appeso un quadro di Stalin e la bandiera, dal colore sbiadito, perche' tenuta nascosta in una damigiana in tempo di guerra.
Ricordo che i compagni della sezione che avevano incarichi politici davano una parte dei loro compensi al partito , ma le tasse erano a carico loro....
Ricordo che quando papa' e' morto era da poco in pensione ma la ditta SASSO ha chiuso la fabbrica per dar modo agli operai di partecipare al funerale dove quella bandiera ha sventolato per lui l'ultima volta.

da Lino Vitiello

Potrei raccontare di quando appena ventunenne tenni il mio primo comizio
elettorale da segretario del circolo della FGCI di Ercolano il 4 giugno 1989.
Quella notte l’ esercito cinese aveva assaltato e fatto strage dei tanti
studenti ed operai che occupavano P.za Tien An Men. C’ erano le elezioni
europee i militanti erano accorsi a centinaia per ascoltare i due oratori,
Giorgio Napolitano ed io. Quando ci ripenso, le mie gambe ritornano a tremare.
Lo rincontrai anni dopo, era diventato Presidente della Camera, previsto un
incontro con il Consiglio Comunale del quale facevo parte, mi avvicinai, e poco
istituzionalmente, dandogli del tu, gli ricordai orgoglioso di aver tenuto il
mio primo comizio con lui. Mi guardò e con un sorriso mi disse : però, come sei
invecchiato… Capii che l’ impegno politico ti fa invecchiare precocemente.
Tenni il secondo qualche giorno dopo, ancora due oratori, io e una sempre
bellissima Luciana Castellina, ricordo ancora quando accompagnandola a casa
con la mia Fiat 127, un vigile ci fermò all’uscita della tangenziale di
Fuorigrotta, ero passato con il rosso. Il vigile nel chiedermi i documenti
riconobbe la Castellina, e nel salutarla dimenticò di verbalizzarmi. Mi resto
il dubbio se il vigile fosse stato colpito dalla bellezza della Castellina o
dall’ ammirevolissima personalità politica. Il vigile non si chiamava Silvio, e
quindi doveva essere vera la seconda delle due ipotesi.
Ma nel mio personalissimo album dei ricordi, quelli più piacevoli sono legati
alle tante compagne “conosciute” nel mia militanza di figiciotto, (ricordate?
il figiciotto con una ne fa otto) Berlusconi a confronto era “na pippa”. A lei,
a Barbara A. di Ostuni, maestra inconsapevole della mia prima esperienza. Era
l’ estate del 1987, Festa Nazionale della FGCI a Ravenna, sulla spiaggia, dopo
canti e balli intorno al falò, il nostro primo “incontro”. Non l’ho più rivista
e non l’ho mai più dimenticata, e solo oggi ho capito che aveva ragione il
Grande Giorgio, sono proprio invecchiato. Ma quanto è bello invecchiare sapendo
che un tempo sei stato iscritto al PCI.

da Irene Gironi Carnevale

Sono stata iscritta al PCI…

…veramente sono stata iscritta prima alla FGCI , al circolo della gloriosa sezione “CHE GUEVARA” di Via Luca Giordano a Napoli. La mia prima tessera FGCI datata 1975 me la fece Maurizio Vinci, allora segretario di circolo. Era per me un periodo intenso e particolare e la sezione diventò la mia casa, nel senso più letterale della parola! Amici, amori, passioni, discussioni, incazzature. E poi il volantinaggio, l’attacchinaggio dove ci fronteggiavamo con i fascisti del quartiere, le campagne elettorali, gli attivi, le manifestazioni. Per la mia generazione è stato un modo per crescere provando un senso di appartenenza che i nostri figli ignorano. La condivisione di fatti che facevano la storia del nostro Paese, di cui al momento ignoravamo la portata, ci faceva sentire partecipi di un presente che volevamo, dovevamo cambiare.
Venivo da una famiglia borghese, padre militare, madre casalinga, a casa zero politica. Mi sono costruita la mia identità politica sui banchi di scuola e in sezione, faticosamente, facendo domande e cercando risposte, invidiando per anni chi aveva un padre operaio o sindacalista, chi viveva la politica , la respirava. In quegli anni ho maturato la convinzione che la politica fa parte della nostra vita inevitabilmente, il solo avere un’opinione ed esprimerla è politica ed è giusto portare avanti le proprie idee a qualunque costo. A distanza di tanti anni ancora mi incazzo quando sento affermazioni qualunquistiche del tipo:”Io non mi occupo di politica”. Sono stati anni intensi, indimenticabili di cui non è semplice parlare in due parole per la complessità delle emozioni che ancora mi suscitano. Sono stati anni dai quali è stato difficile staccarsi, proiettati in una nuova realtà dove tanti di noi si sono sentiti, e forse ancora si sentono, orfani o comunque non hanno trovato riscontro in un nuovo assetto che sentivano estraneo. Non è facile fare i conti con il tempo, non è semplice accettare i cambiamenti. Quello che posso dire è che se oggi sono quella che sono, una donna che ha affrontato e affronta le sfide della vita senza piegarsi, senza fare sconti, senza sottrarsi alle responsabilità lo devo anche a quegli anni, a quella scelta, forse la prima vera scelta interamente mia che ancora mi porto dentro. I compagni di allora li ricordo tutti, molti li sento e li vedo ancora, alcuni hanno subito strane metamorfosi ideologiche, altri sono rimasti uguali, ma quando ripenso a quegli anni l’immagine che prepotentemente prende la scena è quella di una stanza della sezione Che Guevara dove noi, intorno all’unico che sapeva suonare la chitarra, cantiamo “La locomotiva” di Francesco Guccini. E vi garantisco che un ricordo del genere non è poco!

da Stefano Milani

Mi sono iscritto al PCI nel 1987, avevo 21 anni. Sezione Porto Fluviale, Roma. Erano gli anni in cui il Partito viveva il suo declino, politico ed elettorale, e un giovane che prendeva la tessera era accolto con affetto, entusiasmo e speranza. I maggiorenti della Sezione mi introdussero subito ai riti di un passato che stava per sparire: i volantini “stampati” col ciclostile, il volantinaggio nel quartiere, l’attacchinaggio con secchio e colla, la distribuzione domenicale de L’Unità, casa per casa. Tra compagni era tassativo darsi del “tu”, anche quando un ragazzo come me si trovava a parlare con un anziano. E poi c’erano le Assemblee di Sezione, i Direttivi, le Segreterie, i pomeriggi a parlare di politica, ma anche di sport, donne, vita. La Sezione era “la vita”. Vissi quell’esperienza con una dedizione totale. Come canta Gaber, ho avuto per una breve fase della mia esistenza la sensazione di “appartenere ad una razza che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita”. La razza dei comunisti, quelli che, per dirla con Stalin, sono fatti “di una pasta speciale”. Arrivò, troppo presto, la svolta della Bolognina. I militanti di base erano sconvolti e smarriti. Per dare un segno di rinnovamento il Segretario della Sezione diede a me l’incarico di tenere la relazione introduttiva all’Assemblea che avrebbe dovuto discutere di un passaggio epocale. E allora feci quello che è stato il gesto più surreale della mia vita: io ero un comunista togliattiano e leninista, con un amore irrazionale per l’Unione Sovietica, piuttosto anacronistico per la mia età. Proprio per questo, sentitomi investito dal Segretario del compito di rappresentare la “linea” del Partito, tenni una relazione improntata ad un entusiastico appoggio alla posizione di Occhetto: partii dalla svolta di Lione, per poi passare a quella di Salerno per dimostrare che noi comunisti avevamo sempre saputo adattarci pragmaticamente al mutamento delle condizioni storiche. La svolta della Bolognina si inseriva a pieno titolo in questo percorso, così conclusi. Dopo un paio di interventi, però, chiesi di nuovo la parola, come semplice militante e non come membro della Segreteria. E nel secondo intervento mi scagliai con virulenza contro la svolta, con commoventi richiami all’orgoglio comunista, alla lotta di classe, alla gloriosa Rivoluzione d’Ottobre. Una schizofrenia che oggi mi fa sorridere ma anche vergognare…Arrivò il Congresso della svolta, il XIX, nel 1990. Io aderii alla mozione presentata da Armando Cossutta. Era la mozione che contava sul minor numero di sostenitori (alla fine prese appena il 3%). L’essere in pochi catapultò un ragazzo come me tra le figure di maggior rilievo della mozione. Durante la campagna congressuale ogni giorno venni inviato in una sezione della città e della provincia a sostenere le nostre posizioni. Io ero un ragazzo di 23 anni, e mi trovavo a confrontarmi con i compagni prestigiosi che sostenevano le mozioni di Occhetto e di Ingrao. Un’esperienza irripetibile. Un giorno, in un’assemblea plenaria dei cossuttiani, Armando Cossutta nelle conclusioni richiamò un passaggio del mio intervento, citandomi per nome. Fu un’emozione enorme; per me lui era un mito, e in un contesto improntato all’ortodossia avere il consenso pubblico del leader non era cosa di poco conto. Un anziano compagno volle vedermi riservatamente una mattina per dirmi di stare attento agli invidiosi…Roba da Comintern! Al congresso di Sezione presentai farneticanti emendamenti alla mozione Occhetto che rivendicavano la tradizione comunista, il marxismo leninismo (senza trattino) e la Rivoluzione d’Ottobre. Ebbi un consenso molto superiore alla media nazionale, e fui eletto delegato al Congresso di Federazione. Uno dei miei emendamenti era stato approvato dall’intero Congresso di Sezione, e non solo dai cossuttiani: era quello in cui volevo emendare la frase di Occhetto sulla “democrazia come via per il socialismo” in “non c’è democrazia senza socialismo”. La differenza è evidente, ma forse la maggioranza dei compagni non se ne rese conto. Al congresso di Federazione fu chiamato ad intervenire contro il mio emendamento il grande Mario Tronti, uno dei teorici più lucidi del Partito. Ed anche qui io, giovanissimo, ebbi l’onore di sostenere le mie posizioni dopo di lui, di fronte all’intera assemblea dei delegati. L’emendamento fu naturalmente respinto…Dopo il Congresso, disilluso e deluso, mi allontanai dal Partito e non partecipai al doloroso percorso che portò, nel 1991, allo scioglimento del PCI e alla fuoriuscita di molti compagni, compresi i cossuttiani . Mi distaccai dalla politica attiva, per dedicarmi alla mia vita che avevo tralasciato in nome di un ideale superiore. Ma ancora oggi ricordo con affetto e riconoscenza tutti i compagni che, ormai più di 20 anni fa, mi dimostrarono con atti e parole che esistono uomini “diversi”, e che la politica non è solo perseguimento di un interesse personale. Ancora oggi, quando mi capita di dover esprimere in sintesi come la penso, dico con orgoglio che “sono un uomo del PCI”..

sabato 26 novembre 2011

da Vincenzo Serio

Mi chiamo Vincenzo Serio sono nato nel 1950 e a 19 anni mi sono iscritto alla FGCI a Napoli.
Anni molto intensi di lotte e di scontri con i fascisti quelli dal 1969 al 1972, ricordo con molto affetto i miei compagni di lotta di quel tempo: Attilio Wanderlig, Claudio Pomella, Rosario Messina, Rossano dello Iacovo, Vincenzo Matafora e altri; non ci siamo mai tirati indietro! Nel 1970 mi iscrivo al partito, sezione “centro” di Napoli.
Nel 1971 partecipai al congresso nazionale della FGCI a Firenze. Il partito era rappresentato da Enrico Berlinguer da poco eletto segretario. Mi feci autografare la tessera del 1971 che conservo tra le cose piu’ care. Alla sez. centro ci sono rimasto per 22 anni, fino allo scioglimento del PCI..Nel 1978 divenni segretario della sezione, una sezione importante con 900 iscritti tra residenti del quartiere e cellule dì azienda di bancari , telefonici, giornalisti,ecc.. Anni straordinari, la politica era tutt’uno con la nostra vita, nascevano amicizie fraterne, amori, si formavano famiglie che ancora oggi sono una bella testimonianza di quel tempo. Anche io, girando per sezioni di partito conobbi una ragazza che sarebbe poi diventata mia moglie e che mi ha dato due splendidi figli che sono, per fortuna, anche loro “compagni”che il PCI lo conoscono solo dai racconti del padre.
Voglio raccontare un aneddoto simpatico della sezione centro.
Avevamo tra le nostre iscritte al circolo della FGCI molte ragazze bellissime che frequentavano una scuola d’elite di Napoli che si trovava in via chiaia, il liceo linguistico internazionale, e i dirigenti provinciali del PCI mi chiedevano continuamente di venire in sezione a tenere riunioni, tra i piu’ assidui c’erano Andrea Geremicca e Benito Visca, allora molto giovani.
Ho visto nascere un amore importante tra Benito e una di quelle ragazze, un rapporto che sarebbe durato molto tempo. Ma quello che era formidabile era Geremicca, peccato che sia recentemente scomparso, ne avremmo riso insieme di queste “memorie”. Lui aveva un modo suo di approcciare le compagne che attiravano la sua attenzione. Cominciava a scrivere bigliettini che, dal tavolo della presidenza, dove lui sedeva, cominciavano a volare per tutta la sala. Una frenesia che l’ufficio postale a confronto era uno scherzo. Il tutto sotto lo sguardo arcigno di disapprovazione del compagno Luigi Castaldi dei telefonici che tentava, senza successo, di interrompere le comunicazioni. Dopo l’esperienza della sezione entrai a far parte della segreteria cittadina di Napoli con Visca segretario ed entrai negli organismi dirigenti (comitato federale e direzione) dove ci sono rimasto per molti anni ancora fino alla conclusione della vicenda del PCI. La mia militanza e’ poi continuata anche nel PDS/DS ed oggi PD ricoprendo vari incarichi politici e istituzionali,……..ma questa e’ un’altra storia.

da Valerio Caramassi

sono stato iscritto alla fgci e al pci. in toscana ho avuto responsabiità primarie in circoli, sezioni, zone, federazione (LI), regionale. sono uscito dal pci quando il pci è uscito.... e non sono rientrato più da nessuna parte e in nessun partito. ho da offrire un aneddoto che forse spiega come si stava in quella comunità. come ricorderanno molti degli allora militanti e dirigenti, Berlinguer (è un caso che solo questa parola mi è venuta con la maiuscola?) fece di persona un sopralluogo sui luoghi terremotati dell'irpinia. e come ricorderanno gli stessi, fu in quella occasione che Berlinguer annunciò l'alternativa democratica in sostituzione (pur argomentandola in continuità) con il compromesso storico. il fatto è che io non potetti sentire l'annuncio ai TG poichè ero in viaggio. da roma (botteghe oscure), dove avevo partecipato ad una riunione, a piombino, dove avevo una assemblea di sezione. allora non esistevano i telefonini. arrivai trafelatissimo, e pure in ritardo, alla sezione "salivoli". il dibattito era già iniziato da un bel pezzo. salutai i compagni e presi posto. dovevo concluderlo, quel dibattito. e dunque ascoltai attentamente gli interventi che continuarono a susseguirsi mentre contemporaneamente davo un'occhiata agli appunti della introduzione del segretario di sezione. nulla, negli interventi che ebbi modo di ascotare, fece riferimento allo shift. forse perchè il tema all'odg era riferito alla situazione delle acciaierie. In ogni caso, quando presi la parola, come si usava allora, feci riferimento agli scenari internazionali e nazionali di contesto. non ero mai stato convinto dal (e del) compromesso storico e tuttavia, come tutti, "difendevo la linea" pur piegandola alle mie sensibilità di ingraiano. naturalmente i compagni sapevano ben interpretare il mio "codice". e proprio per questo, in un momento di massimo sforzo argomentativo, un compagno, il compagno carli, mi interruppe raggiante: "valerio, smorza! rilassati! il segretario stasera ha annunciato l'alternativa democratica". non mi ricordo a quale panegirico feci ricorso. mi ricordo che fui invaso da uno stato d'animo misto fra l'esultanza e l'imbarazzo e cercai comunque, in modo certamente più sciolto, di argomentare la necessità dell'incontro fra le "masse cattoliche, comuniste e socialiste". il pci, come è stato molto più autorevolmente detto, era insomma "un'orchestra jazz, dove lo spartito era lo stesso per tutti ma dove tutti, all'interno di quello spartito, potevano esercitarsi negli a solo". Oggi pullula di solisti senza che si riesca ad intravedere un orchestra.

da Mauro Zanella

1978 o forse il '79, a casa di Umbe (Umberto Contarello) ci sono Pietro Folena, Attilio Orecchio, Dorigo, Umbe e il sottoscritto, poi arriva Tom Benetollo.... Sono circa le tre di notte. La segreteria allargata della FCGI Veneta era al completo. Quello che allora chiamavamo "elaborazione" oggi si direbbe brain-storming. L'obiettivo: la FGCI deve essere più' movimento che partito.
Nella stanza rimbalza un idea; dieci, cento, mille aggregazioni, centri e comitati delle ragazze, dei lavoratori, degli studenti e per la pace...Il nome fu un progetto politico: la centrale giovanile rivoluzionaria. Un idea minoritaria al successivo congresso della FGCI, ma un intuizione senza precedenti.
Alle 5 e qualcosa, Attilio ed io dobbiamo prendere il treno, ma prima facciamo un salto alla panetteria che sforna "bomboloni alla crema" appena sfornati. Un idea geniale,la giusta paga per un gruppo che nell'idea che il cambiamento , qui e ora, e' necessario ha vissuto, e' cresciuto e sono sicuro continua a vivere. E' stata una straordinaria esperienza di vita.
Un balzo indietro. 1972, settembre o forse ottobre, ho appena ricevuto la tessera della leva Gramsci della FGCi da Piero Manfe' ( un compagno e un amico per una vita). Nei primi giorni di scuola ( la superiore) ci sono assemblee ( sul trasporto pubblico), parlo anch'io. Un compagno, Giacomelli, mi chiama in disparte e mi chiede:" te la senti di guidare la manifestazione a favore del Vietnam di Venerdì?" Penso si tratti di fare "picchetto" davanti alla scuola e senza esitare dico di si..Forse ho frainteso, o forse non sapevo allora dire di no, comunque quel Venerdì mi trovo in una vecchia seicento con il megafono collegato a scandire "USA go home". Assolutamente stonato, ma pieno di gioia.

da Angelo Pavia

Ero un giovane di 20 anni, come tanti che cercavano di
sbarcare il lunario tra un'ideologia proveniente dall'est
europeo o una Divina Provvidenza che potesse dare una
speranza di vita. Qualcuno disse che si poteva trovare un
accordo tra questi due filoni, lo chiamò "compromesso
storico", ma pochi capirono il vero significato. Enrico
Berlinguer, segretario del PCI, si impegnava per insegnare
che l'Italia era diversa dall'URSS e che il nostro percorso
doveva essere completamente diverso.
Un giorno di fine inverno, il 16 marzo, rapirono il
presidente del maggiore partito del momento. La Democrazia
Cristiana, nel bene e nel male, rappresentava la storia
italiana dal dopoguerra e Aldo Moro era tra le maggiori
personalità politiche di quel tempo.Erano periodi bui, li
chiamavano "anni di piombo". In nome di una
pseudorivoluzione si sparava. Si uccidevano persone che,
semplicemente, facevano il loro lavoro. Ero a casa di un
amico, ci eravamo iscritti alla facoltà di Portici, quella
di agraria. La madre accese la tv e dopo poco capimmo che
niente sarebbe stato più lo stesso. Furono settimane
tremende, si temevano perfino le sorti della Repubblica. Il
9 maggio 1978 fu ritrovato il corpo di Aldo Moro ucciso
dentro ad una Renault 4. Avevo le chiavi della sezione
Arenella di via Giotto. Senza prendere tempo, parlando con
qualcuno, la aprii, presi la nostra bandiera e la posi
vicino ad un albero sulla strada con un drappo nero di
lutto. Era giusto che il PCI si dovesse sentire a lutto per
la morte di un autorevole avversario?
Avevo vent'anni e poca esperienza, ma forse il gesto fu
gradito. Mi ritrovai, dopo non molto, a collaborare con
l'apparato tecnico della Federazione, quella di via dei
fiorentini. Non ho mai avuto ambizioni politiche, ma aprire
le porte scorrevoli a tanti dirigenti mi faceva sentire
importante. Soprattutto mi emozionava poter far entrare una
persona che si vedeva subito che era ad un livello più alto
degli altri. Ci son voluti 30 anni, ma ora è Presidente
della Repubblica!
Un giorno mi chiesero se, per fare il turno di notte,
volevo la pistola. Capii che quel "lavoro" non era per me.
Non avevo speranze, dovevo emigrare per trovare un lavoro
onesto. Quando vidi alcuni miei amici vendere sigarette di
contrabbando per guadagnare qualcosa capii che dovevo
emigrare. A Napoli o vivi colluso con la malavita o te ne
devi andare. Posi il problema politico che se partivano
sempre e solo gli onesti sarebbero aumentati sempre di più
i malavitosi, ma per me era già tardi.
La mia storia non è diversa da quella di tanti giovani
che hanno vissuto il travaglio della fine di un grande
partito del secolo scorso. Dalla campagna elettorale per
Valenzi sindaco al festival dell'Unità di Napoli del '76,
dalla strategia della tensione alla morte di Enrico, dalla
caduta del muro alla nascita del PDS, c'è chi ha resistito,
chi ha abbandonato la militanza, chi è andato in altri
partiti, qualcuno addirittura nel campo avverso, ma tutti
abbiamo avuto in tasca la tessera del PCI.

venerdì 25 novembre 2011

da Antonino Marino

NON sono mai stato iscritto al Pci, ma sono stato iscritto alla Fgci, ed ho avuto la possibilità di votare il Pci alle amministrative del 1990, anche se era un partito già attraversato dalla svolta di Achille Occhetto. In questa curiosa iniziativa in fb mi piace ricordare come l'originalità del PCI italiano appartenga alla storia del paese, un partito che non ha mai governato il paese, ma che a mio avviso è stato funzionale alla storia di esso, basta pensare che pur non governando ha governato tantissime regioni, diverse metropoli italiane, tantissimi comuni, ha orientato coscienze, culture, arte, musica, canzoni, letteratura, pittura e tanto altro. Pur amando sempre il futuro , questo gruppo di Rondolino e Velardi mi è piaciuto e siccome si chiede una testimonianza personale ne porto tre: l'emozione provata per i funerali di Berlinguer, ero uno strano 12enne che sceglieva il tg a Topolino ( a 40 anni mi ritrovo a optare su Topolino rispetto al Tg), la prima partecipazione da delegato ad un congresso della fgci a 15 anni a Bologna dove Pietro Folena lasciava il passo a Gianni Cuperlo, ed infine un viaggio nella storia, 3 ore ad Oneglia a casa di Alessandro Natta, lucido pensionato, che offrì a me a Francesco Ori, ed altri 3 modenesi una splendida lezione privata di storia del nostro paese che venne poi riportata nel giornale della Sinistra Giovanile

da Maria Luisa Mello

Anni '70, FGCI San Giuseppe Porto.

Il circolo era pieno di studenti del Genovesi, ma anche un po' del Fonseca, tutte ragazze, era un Magistrale.
Ma non c'erano solo studenti, c'erano i ragazzi del quartiere, ragazzi con esperienze diverse dalle nostre, che venivamo tutti da famiglie del ceto medio con aspirazioni di ascensore sociale.
Eravamo giovani, e qualcuna pure carina. I ragazzi erano come erano gli adolescenti di allora: magri, brufolosi, molto intellettuali, e incapaci di iniziativa verso le ragazze, che invece si davano da fare.
Erano pure i tempi dei collettivi femministi, cui partecipavamo in clandestinità rispetto alla FGCI che non li apprezzava. Erano anche i tempi della rivoluzione sessuale (beh, insomma con qualche anno di ritardo), cosa che il partito disapprovava in modo deciso.
Per tornare al circolo, il mix sociale, l'età e il carattere pepato della maggior parte delle ragazze, del resto perchè una gatta morta avrebbe dovuto interessarsi alla militanza politica?, crearono una vera bomba biologica.
Ad accrescere la temperatura dell'ambiente, c'era anche la particolare situazione in cui si trovava all'epoca un giovane figiciotto nei nostri licei quasi monopolizzati dai gruppettari.
Io ero la sola figiciotta in una classe di ultras, dove la media si attestava su Lotta Continua, per dire.
Ci sentivamo tosti, diversi, speciali...
Il sabato sera ci trasferivamo in blocco a casa di Nicola, che aveva una grande casa, molti dischi e genitori resi tolleranti dall'età avanzata. Ci venivano anche quelli dei gruppi.
Le serate si svolgevano fra pomicio, dibattito, taralli e birra. Il casino succedeva quando si cominciava a cantare, perché quasi sempre qualche provocatore intonava Contessa, e arrivati alla strofa 'se c'è chi lo dice sputategli addosso' scoppiava la rissa.
Nel '76 ci appassionammo molto alla vicenda 'club delle cornicelle', un fenomeno di scambio ricorsivo di fidanzati fra E.D. e N.I., tanto che poi non ho mai saputo in quale configurazione le due coppie si siano stabilizzate.
Poi arrivò il '77, brutto anno, le aggressioni nelle università, e per me soprattutto l'esame di Analisi Matematica I. Scelsi di laurearmi, e presto; entrai in un tunnel e all'uscita scappai a Milano.

da Pompeo Volpe

Mi sono iscritto alla sezione Universitaria del PCI nel dicembre 1973, circa un mese dopo aver iniziato la frequenza dei corsi di Medicina e Chirurgia dell’Università di Padova. L’idea, maturata negli ultimi anni del Liceo, era che i sei anni di università dovessero essere un periodo di preparazione alla professione del medico concepita come servizio al prossimo. Accanto ad un percorso personale di studio ce ne doveva essere uno politico inteso come partecipazione diretta ai processi di trasformazione delle strutture universitarie; la qualità della mia futura professione dipendeva non solo dalla bontà degli studi compiuti ma anche dalla concreta modificazione della Facoltà universitaria all’interno della quale tali studi si svolgevano.

Le motivazioni che mi avevano portato ad aderire al PCI erano sicuramente diverse da quelle di altri compagni. In effetti, al medesimo approdo si giungeva con le più eterogenee motivazioni, tenuto conto della diversità di estrazione sociale, formazione culturale, provenienza geografica dei militanti della sezione Universitaria. Io non ero di estrazione operaia, non avevo un retroterra familiare di sinistra né alcuna precedente esperienza politica, non avevo alcuna passione per la politica in senso lato; eppure sentivo il dovere di fare politica per compiere un percorso universitario completo. Non era passione, era convinzione.

Emblematico, per il mio approccio alla politica in quei primi anni di militanza, fu il lungo dibattito avviato da Giovanni Berlinguer su L’Unità del 14 dicembre 1973 con l’articolo “I medici di domani” incentrato sul profilo dei medici italiani di lì a 5-10 anni. La questione cruciale era relativa alla collocazione della Facoltà di Medicina dentro o fuori dell’Università, ovvero quale fosse la migliore struttura formativa per gli studenti in relazione ai bisogni sanitari del paese in tema di prevenzione, terapia e riabilitazione. La analisi della qualità degli studi era collegata strettamente alla considerazione delle qualità professionali dei medici, e non si sottaceva il problema numerico ovvero il rapporto medico/paziente che nell’arco di 5-10 anni sarebbe sceso a valori di 1/250 contro la media europea di 1 per 600-800 abitanti. Il dibattito (riportato in larga parte nel volume collettivo AAVV, Le Scuole di sanità, 1976, Il Pensiero scientifico Editore) si svolse dapprima sulle pagine de L’Unità, ebbe momenti di discussione interna, sia alle Botteghe Oscure che nella scuola di partito delle Frattocchie, e si concluse con un convegno pubblico tenutosi a Roma (28 e 29 novembre 1975). In quella sede fu presentata e discussa una bozza di legge per l’Istituzione delle Scuole di sanità, una struttura di tipo nuovo per la formazione del personale medico e paramedico, che avrebbe dovuto sostituire la Facoltà di Medicina. La nostra politica non era rivendicativa, protestataria, era propositiva, frutto di riflessione, di studio; non sollecitava la fantasia, cercava di cogliere i problemi fondamentali e di trovare soluzioni di interesse generale - si poneva per esempio, il problema della regolamentazione degli accessi in relazione ai costi ed alla qualità degli studi -; era forse una politica noiosa, ma guardava con fiducia al futuro da costruire.

Negli anni immediatamente successivi, qualcosa modificò il nostro progetto.