venerdì 2 dicembre 2011

da Toni Gangarossa

Erano le cinque di mattina, una folta coltre di nebbia ricopriva tutte le case e la piana appariva come un grande mare calmo e bianco. Quella giornata appariva speciale già dalle prime ore e la mia città in quel momento sembrava avere dimenticato gli spari, il sangue e la paura della guerra di Mafia che imperversava per le sue strade, stravolgendola e segnandola per sempre, come una brutta ferita mai perfettamente cicatrizzata.
Il pullman abbordava le curve strette della collina di Caposoprano diretto a Roma, dove un gruppo di studenti delle scuole superiori di Gela avrebbero incontrato il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
Poco importava se in quel periodo imperversava la bufera di Gladio, noi giovani comunisti, partigiani della lotta alla Mafia in una città in mano alla Mafia, sapevamo di scrivere una delle pagine memorabili della storia recente di quella cittadina, frontiera d’Europa. Eravamo in tanti iscritti alla FGCI, ma non eravamo tutti, dunque, avevamo un rispetto sacrale per coloro che non manifestavano particolare attaccamento alla militanza politica. Disponibilità, sacrificio, ma con discrezione, tatto, delicatezza, consapevoli che a Gela la Democrazia Cristiana la faceva da padrona e che se avessimo osato più di tanto personalizzare quella straordinaria idea, non avrebbero nemmeno pagato le spese per il viaggio, giù al Comune.
Quell’idea: scrivere al Capo dello Stato, per chiedere un centro d’aggregazione giovanile,che quando Giusi Polizzi lo disse pensava più allo spazio per amare, per amarsi, che al tempio della lotta alla Mafia. Per alcuni era anche questo la militanza, il luogo della passione, dell’innamorarsi,della provocazione, della libertà, quando questa voleva dire tornare a casa tardi “perché c’è riunione” e tuo padre “compagno” non ti diceva niente. Nessuno credeva che Cossiga ci avrebbe risposto, ma serviva dirlo in giro, perché arrivassero nuovi iscritti in FGCI. Poi, tutto cambiò e quando una sera fui chiamato nello studio di uno degli avvocati più autorevoli della città: l’Avvocato Moscato, che mi consegnò la lettera con cui chiedevano l’istituzione del Tribunale di Gela, capii che avevamo davvero fatto qualcosa di straordinario, talmente grande che noi stessi non riuscivamo a percepirne fino in fondo la grandezza.
Al Quirinale, quella mattina, Cossiga ci chiese se volevamo del succo di frutta, io e Giusi, quasi scoppiammo a ridere, un pò per il nervoso, un po’ perché difficilmente bevevamo succo di frutta; eppure, seduti sul divanetto a due posti in stile antico, con le mani tremanti, il coraggio fu più forte dell’emozione e parlammo per più di un ora delle nostre ragioni, della violenza subita, di un diritto negato: essere giovani liberi e consapevoli che non c’è libertà se non si sconfigge la Mafia.
Il Presidente fu toccato da quel coraggio, forse, dall’ingenuità di fondo con cui rappresentavamo i nostri bisogni, fatto sta, che prese l’impegno di venire a Gela, a trovare gli studenti che reclamavano un centro d’aggregazione giovanile. Così fu. Pochi mesi dopo, in una città incredula e bardata a festa, arrivò a Gela il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il quale, mi consegnò, nelle mie mani, il progetto del palasport polivalente, da utilizzare come centro d’aggregazione. Peccato che passarono oltre dieci anni per finirlo, peccato che alla sua inaugurazione nessuno ricordò l’impegno di quei giovani studenti, peccato che Gela è una città che non ha memoria e forse, proprio per questo, incapace di immaginare un futuro migliore. Di quella stagione rimane soltanto il nome “provvisorio” della struttura sportiva: il “PalaCossiga”.
In fondo, essere stati giovani comunisti, per noi, significava anche questo, fermarsi un passo indietro la spettacolarizzazione. Avere rispetto, fino in fondo, per il valore ideale di una battaglia che a Gela è valso il riscatto dall’etichetta di città della Mafia. Il ricordo di quei giorni in cui Santoro, Costanzo, Enzo Biagi, Nando dalla Chiesa e Giovanni Falcone guardarono a noi con ammirazione e rispetto, valgono molto di più della celebrità di un passaggio televisivo e del sogno di potere dire: diciottenni siamo stati dal Capo dello Stato.

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