mercoledì 26 settembre 2012

da Vincenzo Marini 1


In viaggio per Strasburgo


   Dal 1978 al 1984 ho lavorato intorno alle vicende del terrorismo italiano e della cosiddetta strategia della tensione. Responsabile, dal 1979, della sicurezza del PCI, facevo parte della sezione Problemi dello Stato, diretta da Ugo Pecchioli. In ragione del mio ufficio, ho conosciuto da vicino tutti i dirigenti nazionali del partito e frequentata in lungo e in largo la nostra organizzazione periferica. Un viaggio incredibile dentro un’altra Italia.  Negli anni di piombo le misure di prevenzione e sicurezza contro attentati, infiltrazioni, provocazioni, verso le nostre sedi e i nostri dirigenti, nazionali e locali, occupavano il mio tempo senza un attimo di respiro. Non era un lavoro organizzativo - anche se le misure pratiche venivano predisposte con la cura meticolosa tipica della cultura dei partigiani comunisti - ma soprattutto di conoscenza: di intelligence .

   “Marini, sei il nuovo responsabile della sicurezza, vero?! Il vocione di Giorgio Amendola ruppe i miei pensieri, seduto sulle ultime file dell’aereo che portava da Roma a Strasburgo, il 13 luglio del 1979, Enrico Berlinguer e altri dirigenti comunisti,  per l’insediamento del primo parlamento europeo. “Vieni a Strasburgo per vedere con i tuoi occhi come siamo messi?” – non mi diede neanche il tempo di rispondere e continuò, “Bravo, ma ricordati che la vigilanza non è fatta di misure tecniche. E’ un’arte  la vigilanza!” Probabilmente lesse nei miei occhi un qualche smarrito interrogativo perché continuò dicendomi: “Tanti anni fa, dopo il ’45, Togliatti venne a Napoli. Salvatore Cacciapuoti era talmente preoccupato per la sua sicurezza che, per alloggiare il capo del partito,  predispose una intera palazzina, svuotata dalle famiglie, in un quartiere operaio, e mobilitò un numero spropositato di compagni per vigilare. Non ero d’accordo con queste misure che isolavano Togliatti da Napoli e caricavano solo sulle nostre spalle la responsabilità della sua sicurezza.. Mi rivolsi a un vecchio amico monarchico che possedeva un albergo molto importante e gli dissi: Devi alloggiarmi  l’uomo politico che assieme a De Gasperi è tra quelli più importanti d’Italia. Si hai capito bene, Palmiro Togliatti , e ti riterrò responsabile se gli accadrà qualcosa. Ce la cavammo con un paio di compagni a fare la guardia fuori il corridoio e un giovane studente universitario, Giorgio Napolitano, che fungeva da ufficiale di collegamento.” Mentre rideva, ammiccando verso la moglie Germaine, io ero completamente nel pallone per quella lezione così lucida, per quella sensibilità umana e quella curiosità che lo aveva spinto, vedendomi certamente assorto e spaesato, a curarsi della mia prima volta.

venerdì 21 settembre 2012

da Vincenzo Crolla


LO SCIOPERO DELL'AGOSTO 75

Scoppiò all'improvviso. Meglio deflagrò. Inaspettato; e stupefacente. Si era più o meno a Ferragosto, uno dei tre periodi di più intenso traffico: Nord/Sud nei primi giorni del mese, il contrario, Sud/Nord dopo il 15. Venivano giù gli emigrati al Nord. A frotte. Venivano a trascorrere le poche ferie presso vecchi genitori, spesso braccianti; al meglio contadini o mezzadri in Calabria, in Sicilia. Ovunque nei paesini riarsi al di là di Eboli e Battipaglia. Era uno dei tre momenti critici per le Ferrovie. Gli altri due: Pasqua e Natale. Se volevi metter in ginocchio il Paese, se volevi far cadere un Governo era quello il momento buono. E arrivò. Come un ciclone. Autonomi e fascisti, FISAFS e CISNAL, bloccarono tutto. Gli altri due diversi da noi SFI, la Cisl e la Uil alla finestra ma sostanzialmente gongolanti. Si stava giocando una partita solo in parte sindacale. Il PCI alle elezioni di due mesi prima, le amministrative del Giugno '75 era stato travolgente. Un fiume di voti e io candidato. Candidato e votato dai ferrovieri. Quegli stessi che adesso, al culmine dell'esasperazione, e a prescindere dalle opinioni politiche, occupavano i binari, abbandonavano i passaggi a livello incustoditi, lasciavano le linee elettriche senza manutenzione. Avevano ragione: turni massacranti e paghe basse. Lo SFI, il glorioso SFI, retto ancora nel '75 da ex partigiani faceva orecchi da mercante. Troppo nobili i nostri obiettivi di partigiani comunisti per piegarsi alla volgarità di discutere di paghe: e allora fu la guerra. E in guerra non si discute. Se poi a far la guerra sono i comunisti "Obbedisco" è la routine. Fummo tutti mobilitati. L'ordine perentorio e indiscutibile era far marciare i treni: a qualunque costo. Non precettati dall'Azienda, no. Mobilitati dal Sindacato e dal Partito Comunista; per una volta insieme, senza polemiche; sulla stesa barricata. Bisognava battere i fascisti che fomentavano la jacquerie. E noi là, quindi. E io là. "Roma-Palermo Crolla, devi scortarlo perlomeno fino a Sapri". Saranno state circa le 19,30. Sono tornato da Sapri alle 17,00 del giorno successivo. Passaggi a livello aperti, segnalazione inesistente, di capistazione neanche l'ombra. Io e Elio, Capotreno e macchinista, lui con una chiave inglese sul banco, Non si può mai sapere Enzo in giro ci sono troppe teste calde. Dovevamo arrivare siamo arrivati Siamo arrivati a Campi Flegrei stanchi e sudati. Al binario 1 della stazione, nella Sala d'attesa il Partito aveva organizzato una piccola task force (Eugenio Donise, Pierluigi Cossu, Rino Marzano ed altri che non ricordo) a protezione di coloro che, come me, avevano scelto l'epica all'umanissima viltà. Accanto alla sala d'attesa vicino alla Sala Movimento circa 200 ferrovieri: sudati, arrabbiati, stanchi. Increduli e inviperiti verso chi, anziché essere li con loro, praticava un crumiraggio all'incontrario. Io poi, ero per loro particolarmente odioso. Appena due mesi prima mi avevano votato. Quando hanno visto scendere me da quel treno non credevano ai loro occhi. Il brusio è cresciuto...Via via si faceva protesta aperta. Mi aspettavano al varco. Per riprendere l'auto e andare a casa dovevo per forza passare davanti a loro che erano appostati tra la Sala d'Attesa dove era acquartierato il Partito e il parcheggio. Cossu e Donise mi sono venuti incontro con intento protettivo, con l'intenzione di scortarmi fino all'auto. Ti accompagniamo, No compagni farmi accompagnare è come dichiarare il proprio torto, devo andare da solo, E' rischioso, Fa niente, rischierò. E borsa alla mano mi sono avviato. 400 occhi mi guardavano severi, curiosi, interrogativi, Perché tu? Perché tu non scioperi? Ti abbiamo dato il nostro voto perché tu ci ripagassi cosi? Questo dicevano quegli occhi; e intimavano che io abbassassi i miei. Se l'avessi fatto sarebbe stata una sconfitta. Non solo per me. Non li abbassai. Avevo paura ma non li abbassai. Il mare di persone lentamente si aprì e potei tornare per quel giorno a casa dai miei. Due mesi dopo, Geremicca vigente, mi fu ordinato di lasciare l'impegno al Partito e di assumere una qualche responsabilità nel Sindacato....A quel tempo non si chiedeva...si ordinava e, si si accettavano le regole, non si discuteva, si ubbidiva e, a malincuore, ubbidii. 
PS. Contarello eccoti il tuo fottutissimo raccontino zeppo di retorica. Sarà vero..sarà falso...Forse è un mito? La realtà è ciò che accade o ciò che noi raccontiamo? Ai posteri l'ardua sentenza.....


da Fulvio Wetzl


Via de’ Giubbonari

1972, appena arrivato da Milano, dove sfilavo da ragazzo in prima fila con “gli unici comunisti riconosciuti da Pechino” (Servire il Popolo), sulla 94, dalla Piramide verso il Pantheon, incrocio Giorgia, in piedi, davanti a me, seduto. Ha i libri legati con una cinghia di gomma. “Vuoi che ti tenga i libri?” le chiedo titubante. Dopo nemmeno un giorno stiamo già facendo l’amore a Tormarancio, dentro un cespuglio, ambedue ancora in famiglia con case indisponibili, mentre sotto, nel canyon, tre ragazzotti smontano una moto appena rubata. Più graffi di cardi sulle cosce che vero piacere, ma vicinanza ansimante assoluta. Dopo, fumando, mi chiede, il nome ce lo siamo già detti, come se fosse una condizione imprescindibile: “Io sono comunista, tu… ?” Mi guarda ferma, con occhi, neri come laggiù tra le sue gambe, dove io esito a guardare. “Anch’io” - farfuglio. “Comunista, del PCI, intendo” - e tira fuori la tessera, mostrandomela con fierezza - “Tu ce l’hai?” “Si sono del PCI, anch’io - mento non alzando gli occhi - ma non ho la tessera… Ancora…” - aggiungo mormorando. “Allora non sei ancora del PCI”. Si è alzata e mentre si allaccia la camicetta, con un piglio da campagna tesseramento, dice senza esitazione - “Andiamo subito a farla” - è bella, è alta, ha le cosce lunghe, me ne accorgo solo ora - “Alla mia sezione. Regola-Campitelli, in via de’ Giubbonari , Campo de’ Fiori” Ha un tono perentorio, come se dicesse “senza tessera non sto con te”. “Andiamo - dico con maggior convinzione, “ne vale la pena” penso, ora che la guardo senza più esitazioni mentre sto per conquistarmi il diritto di farlo - “Prendiamo la 94, va bene per andar là?”. Giorgia ride: “La 94, ma come parli? Il 94! Già, che sei di Milano” dice a sfottò, mentre intreccia le dita con le mie. Risaliamo la proda.
Il compagno dietro una scrivania, piccola da sembrare un banco, ha finito di compilarmi la tessera, io ho appena pagato la quota, “soldi ben spesi” - ho pensato e mi riguardo la mia donna che ora fa gli onori di casa. “Brava Giorgina - la saluta il ragazzo - benvenuto compagno… Fulvio - legge e mi sorride, complimentandosi per la conquista - …Wezzele -
storpia il nome - che sei de’ Bolzano? con ‘sto cognome…”. “No, sono d’origine austriaca, ma so’ italiano, de Padova” - romaneggio. Poi guardo la mia Giorgia che mi porta nelle varie stanzette anguste, fino alla sala. Ci sono tante piccole riunioni informali “de quartiere” - in ogni stanza. “Ma perché ti chiamano Giorgina? Sei così alta…” “Mi ci ha chiamato sempre mi’ padre e loro lo sanno” - dice come a giustificarsi. “Per me sei Giorgia” - dico con piglio sicuro. “Giorgia, la donna tua!” replica contenta affondando i suoi occhi nei miei. “Conosci questo?” - è arrivata vicino al ciclostile e me lo indica. “Certo, il ciclostile”, replico con saccenza. Individuo il correttore e glielo passo. “E questo è il correttore. È rosa, una cosa per signore”- dico scherzoso. “Infatti io ti correggo e poi ti mazzòlo se occorre!” dice ghignando, agitando la mano minacciosa. “I comunicati li faccio io. - mi dice con fierezza - prima li scrivo sulla matrice. Poi li correggo e li stampo. La prossima volta mi guardi, così impari”. “Ma li so fare. Li facevo già a Milano”- dico orgoglioso. “Dove?” - mi guarda sospettosa Giorgia. In tutta risposta la spingo verso l’uscita. Via de’ Giubbonari nella prima sera, vetrine già accese. Giorgia fa gli onori di casa anche qui sulla strada. “Quella è la più piccola chiesa di Roma”- In fondo alla piazzetta a trapezio c’è la minuscola facciatina. -“Santa Barbara”. “Speriamo che non scoppi” - dico giocando sul nome. Giorgia non capisce. “Magari… ma qui comandano loro, anche se qui - siamo arrivati a Campo de’ Fiori - nun ce sta neanche una chiesa, è l’unica piazza, credo, qui a Roma.” - Guarda verso l’alto: “Però vedi che fine gli fanno fa’, a chi nun la pensa come loro?”- Leggo il nome di Giordano Bruno sul basamento della statua, nera di bronzo e di crepuscolo. Ci troviamo tutt’e due, imbambolati con la stessa espressione corrucciata di Bruno. “Ce lo facciamo un cinemino?”- rompo gli indugi, adocchiando il Farnese. “Sì, ma quanto costa?” - esita Giorgia - “Che ti frega, pago io” - faccio il magnifico, romaneggiando a mio agio. “Sì, ma guardiamo il film” - dice lei sorniona. “Se il film merita, lo guardiamo…” Me la bacio di gusto, le cingo le spalle con il braccio e la spingo verso la porta a vetri, dentro la hall.

Da Giovanna Borrello

TRA  CGIL  e PCI: vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor………… 

Ho cominciato a praticare la politica nelle aule universitarie nel ‘68. E poiché avevo scritto sui muri dell’Università per circa 3 anni di seguito frasi come “Il PCI Revisionista” e così via, con la crisi del movimento non mi fu facile iscrivermi a quel partito che avevo osteggiato con tanta ostinazione. Virai, dunque, verso la CGIL , che negli anni ‘70 si poteva definire un vero movimento di massa, e quindi più in continuità con il movimento studentesco. Ho ricoperto ruoli importanti a livello territoriale presso la Camera del lavoro di Napoli (la prima coordinatrice delle donne) e la CGIL Nazionale Scuola. Mi iscrissi anche al PCI nel ‘74 senza la costanza del vero militante. Capii alcune caratteristiche di questo partito all’indomani di un Convegno organizzato dal Sindacato Nazionale Scuola a Genzano, presso la scuola di formazione politica della CGIL Nazionale. Eravamo in pieno femminismo, verso la metà degli anni ‘70, le protagoniste erano in buona parte insegnanti iscritte alla CGIL scuola. Di questo dato si erano resi conto l’allora segretario Bruno Roscani e Gian Mario Cazzaniga, responsabile del settore universitario. Da bravi dirigenti, quindi, pensarono che fosse opportuno per capire meglio i problemi della categoria molto femminilizzata e femministizzata, dotarsi di uno strumento che chiamammo esecutivo “Donna-Scuola–Sindacato”. Il nucleo principale di questo organismo era formato oltre che da me e da Anna Franca Tana, iscritte al PCI, da Rossana Pace del PSI. Dopo qualche anno di lavoro sul territorio decidemmo di organizzare un convegno nazionale di verifica politica. Già la fase preparatoria fu complicata, perché tra i promotori figurava il coordinatore dell’esecutivo che era un maschio, tra l’altro disgraziatamente con un cognome molto fallico, Cazzaniga. Questa infelice circostanza attirò su di noi critici strali e irripetibili invettive delle iscritte inferocite della CGIL scuola di tutta Italia. Ma fu poi il Convegno una vera catastrofe! La relazione iniziale di Cazzaniga fu tollerata a malapena, filtrata da noi donne riconosciute dal movimento; le conclusioni fecero, invece, del tutto precipitare la situazione. La compagna della Segreteria Confederale Donatella Turturo, una donna intelligente, chiamata lì per la sua grande esperienza a gestire assemblee difficili, presa, forse, da ri-sentimenti tipicamente femminili alla vista di tante belle e gaie donne in abiti fiorati zoccoli (la nostra divisa) Lei stretta in un triste tailleur grigio scuro, iniziò le sue conclusioni precisando volutamente che il convegno non era “un convegno delle donne ma sulle donne”. Al risuonare di quelle sacrileghe parole, che avevano affondato il coltello nella piaga della tanto discussa questione “donna oggetto”, ci fu una levata di scudi: attacchi isterici, urla, pianti, mentre una nutrita schiera di donne si staccava dal resto dell’assemblea e si dirigeva verso la presidenza, qualcuna agitando anche tra le mani gli zoccoli, in segno di protesta. La compagna confederale fu portata a stento in salvo dal direttore della Scuola di Genzano, il compagno Buonadonna, Salvatore di nome e di fatto, che, quale capitano coraggioso, guidò un manipolo di robusti e fieri operai (impegnati in un’aula adiacente) al grido: salviamo la presidenza e la Turtaro dall’attacco femminista. Il PSI non condannò l’accaduto, Rossana Pace non subì contraccolpi; Anna Tana ed io, invece, iscritte al PCI, fummo chiamate in giudizio da Adriana Seroni e processate: l’accusa era di non aver saputo gestire la situazione ,perché non avevamo concordato prima la “linea” con la Sezione Femminile del Partito. Quando io, per difesa, usai l’argomento(in quel periodo molto dibattuto) che la CGIL non era più “la cinghia di trasmissione” del PCI, mi fu detto a chiare lettere che una cosa erano i proclami congressuali e gli slogans della propaganda un'altra le azioni politiche concrete. Fu per me, questo, il vero primo incontro o impatto col Partito Comunista Italiano. Quel granitico compatto PCI mi apparve per la prima volta quale era in realtà: un Giano Bifronte. Giovanna Borrello 

mercoledì 8 febbraio 2012

da Pompeo Volpe

Breton Woods e gli iscritti alla Cellula di Medicina

Nel 1976, l’annuale congresso della Cellula di Medicina della Sezione universitaria del PCI di Padova, cade il 17 febbraio. Ricordo la data perché: a) ho buona memoria, b) la mia agenda del 1976 lo certifica, c) il giorno dopo cade il mio ventunesimo compleanno, e d) il relatore di quel congresso sono io, il segretario uscente dalla cellula di Medicina.
Ho già assistito a due congressi di Cellula e a due congressi di Sezione nei due anni precedenti e ho capito lo schema della relazione introduttiva. Dal generale al particolare, dalla situazione mondiale alla situazione italiana, dalle questioni universitarie a quelle della Facoltà di Medicina -i tre assi portanti-. La fase che stiamo affrontando deve essere inscritta e spiegata nel quadro generale.
E’ la mia prima relazione congressuale. Qualche giorno prima del 17 febbraio -ahi, non mi ricordo quando-, mi siedo alla scrivania e preparo una dettagliata scaletta che copre e sviluppa i citati tre assi, mi dilungo sulla situazione locale in divenire, sulle lotte in Università -c’è pure una occupazione dell’Istituto di Anatomia Umana- per indicare i nostri compiti. Ma mi manca l’inizio avvolgente che fa calare il silenzio ed aumentare l’attenzione. Penso lentamente, il tempo passa inutilmente, poi lo sguardo mi cade sui volumi della rivista bimestrale Politica ed Economia -dell’oracolante CESPE- che sono in un angolo della mia libreria, appena sfogliati ogni volta che arrivano per posta, mai letti con attenzione. Mi alzo, ne sfoglio alcuni nuovamente. Mi fermo. Ho trovato: la denuncia degli accordi di Bretton Woods voluta dal presidente Nixon il 15 agosto 1971. La scelta è fatta, sono soddisfatto.
17 febbraio, 1976, poco dopo le 15, sede della Sezione universitaria di via Santa Sofia 5. Mi alzo in piedi, estraggo dalla tasca destra della giacca di velluto blu i foglietti-cartoncino di una iniziativa con Pietro Ingrao del 26 maggio 1975 (sempre certificato dalla mia agenda), sul retro dei quali ho schematizzato la relazione, e li poggio sul tavolo della presidenza. La mia relazione inizia con la definizione degli accordi di Bretton Woods, la loro denuncia e la descrizione degli effetti economici e finanziari a livello mondiale, dello shock provocato da Nixon. La relazione continua, come previsto, con il restringimento del cono visuale fino alla valutazione dell’occupazione in corso ad Anatomia. Dopo quaranta minuti circa concludo. Mi siedo accompagnato da applausi appena al disopra del livello di cortesia.
Torna il silenzio ed il compagno Fulvio Palopoli -è morto da poco tempo e me ne dispiace tantissimo-, il dirigente cui toccherà il compito di concludere il dibattito ed il Congresso, con un sorriso appena accennato mi domanda: “Compagno Volpe, va bene Bretton Woods, ma quanti iscritti ha la cellula di Medicina?”. Il silenzio è rotto da una sonora, squillante, giovane, contagiosa risata dei compagni presenti. Gli accordi di Bretton Woods e la loro denuncia sono archiviati, non avrebbero sicuramente animato il successivo dibattito congressuale. Il dato semplice ed essenziale che ho dimenticato di comunicare è però disponibile: gli iscritti sono 65.

lunedì 6 febbraio 2012

da Stefano Fodra

Venti giorni alle Frattocchie
« Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch'è pura luce:
luce intellettüal, piena d'amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai l'una e l'altra milizia
di paradiso, e l'una in quelli aspetti
che tu vedrai a l'ultima giustizia. »
(Paradiso XXX, 38-45)


1.
Era lì un piccolo grande Olimpo, meglio l’Empireo primum mobile, quello a cui comuni mortali compagni difficilmente avrebbero avuto accesso se non per via di indecifrabili macchine iniziatiche, che, appunto per me, rimangono e penso rimarranno in gran parte e per sempre tali.
Oppure per un colpo di fortuna, quello che percepii di avere avuto io in quel momento: tanto lontanamente vagheggiato e tutto sommato immeritato. Questo pensai.
Lì a pochi passi da me si era materializzato il nuovo Segretario, l’Alessandro Natta-dopo Berlinguer, colui cui erano stati affidati scettro e vessillo, uomo elegante e sobrio, volto retrò ammiccante e ridente.
C’era un ristretto circolo intorno a lui, che lo recingeva ed elevava, lo consacrava ad ogni passo. Nello stargli attorno e nello stringersi a lui, tracciava al medesimo tempo, in modo rituale un anello impalpabile e impenetrabile.
Toccava proprio a quegli uomini segnare lo stacco necessario, quello dovuto al capo, quello a cui ciascuno in fondo allegava il proprio stesso senso di appartenenza, di ruolo e, perché no, la propria futura aspettativa, per merito o ancora per fortuna.
All’assemblea convocata per inaugurare quel lungo corso di studio alle Frattocchie, c’erano Cossutta, Reichlin, altri sommi dirigenti del Pci; poi i professori, gli indipendenti Caffè, Spaventa, Rodotà, anche loro stretti intorno al Segretario.
Lo salutavano con un contegno nuovo, rielaborato, rispetto a quello che solo alcuni giorni prima potevano solitamente riservare al compagno Alessandro.
Per un momento ripensai a quante ore di faticosa ammirazione, in preparazione degli esami universitari, avessi trascorso sui testi di quei professori, che ad un tratto sembravano usciti dai loro libri come geni dalla lampada e ora si mostravano a me nelle loro distinguibili sembianze umane.
Natta, dal canto suo, declinava continuamente, con un composto sorriso, associato ad un lieve gesto della mano, ad arginare, più che a scansare, ogni imbarazzante segno, parola o gesto di omaggio ed eccessiva deferenza.
Se allora avevo ammirato quel comportamento fine e forbito, qualche tempo più avanti, quando si poteva ancora credere al miracolo di una rimonta d’immagine, ne provai un crescente fastidio.
Natta, quasi a voler rimediare ad un ostracismo televisivo troppo smaccato, fu invitato mesi dopo , in prima serata Rai, da una più che disponibile e affabile Raffaella Carrà; milioni di italiani a vederlo, tanti di noi a tifare per uno scatto d’orgoglio: invece lui continuò a declinare, con quell’elegante e inutile gesto della mano.
Così dovemmo aggrapparci, con tutte le nostre forze, alla Raffaella, un naufragio sulla migliore zattera che il servizio pubblico poteva passarci.
Anni dopo, l’elegante illuminista, giacobino e comunista Natta si autodefinì come l’ultimo segretario del PCI: vero, anche per questo l’ho sempre rispettato. Anche amato.
Ma intanto, alle Frattocchie, quella piccola processione era sfilata proprio a due passi da me.
Era il luglio del 1984 e il Pci era in una crisi nera, irreversibile, ormai segnata dalla vicenda concreta di tutti i giorni e - in maniera ancora più cruda e sadica verso i suoi integerrimi e appassionati militanti - da quella scritta e perpetrata dal gigantesco mercato dei lustrini, che ormai invadeva ogni più comune sentire.
Era il “sogno” che tutti volevano e noi, che quel sogno volevamo negare; chi anni prima aveva taciuto, ora parlava, parlava anche troppo.
Ogni stupido era come impazzito di facili parole nei bar, nei luoghi pubblici, in qualsiasi occasione: il Pci era vecchio, superato, nemico della modernizzazione, il Pci era in declino, l’Italia aveva bisogno di aria nuova, i lavoratori e le lavoratrici ora volevano abiti nuovi, griffe e imitazioni luccicanti, via le divise, via gli stracci opachi di un tempo passato.
Le masse? I collettivi? I gruppi? Tutto da polverizzare, disarticolare, individuo per individuo, e ricomporre in nuovi aggregati impalpabili ed interscambiabili. Il consumismo? Solo un “ismo”, basta con gli “ismi”, ogni parola ora finisce per semplice “o”, come io. Comunismo, finisce in “ismo”! Non va bene.
Molti dei nostri abbozzavano difese sempre meno irresistibili, altri dei nostri ogni giorno più numerosi, adesso tacevano, si appartavano dalle discussioni, come indifesi: la fierezza della diversità, ora dopo ora, andava consumandosi.
Si avvertiva chiaro che un’identità tanto orgogliosamente rimarcata ed esibita, ineluttabilmente stava precipitando in una sorta di rarefatta alienazione; tanti cedevano, magari piano piano, altri si aggrappavano sempre più forte, ripetendosi che quello, altro non poteva essere che uno dei tanti e banali incidenti della storia.
Un incidente passeggero, una rivoluzione passiva di breve termine.
Le ragioni materiali avrebbero ben presto ed inevitabilmente sopraffatto quelle rampanti chimere della vacuità e voracità degli anni ’80: intanto il compagno Nicolini a Roma inaugurava, per tutta risposta, le stagioni dell’”effimero”.
Quando mi arrivò la telefonata, stentai a credere: chiamato, anzi convocato alla Scuola nazionale quadri del PCI, a frequentare un corso sulla politica economica; “ venti giorni, senza interruzioni” , avvertì subito il compagno del Comitato Regionale, non si poteva dire no.
Baciato dalla fortuna, pensai, ma questo non si poteva ammettere, solo si poteva dire che qualcuno in alto, molto più in alto, che aveva il potere di chiamarti in ogni momento, aveva deciso e che non si poteva dire no.
Alle Frattocchie fu come arrivare ad una meta piena di misteri: già all’arrivo, dopo tante richieste d’informazioni ai vari benzinai vittime dell’inesistenza ancora dei Tom Tom, sembrò entrare in un mondo a parte, da un accesso celato.
(continua)….forse

domenica 22 gennaio 2012

da Nadia Mentasti

La domenica mattina si diffondeva L’Unità .
I compagni del PCI della sezione Antonio Gramsci di Borgo Palazzo prendevano sotto braccio un po’ di copie dell’ “Organo Ufficiale di Stampa del Partito Comunista Italiano” e suonavano i campanelli della gente del quartiere, cercando di convincerla a comprarne una copia e soprattutto a leggerla, per capire le ragioni del popolo e del PCI.
E io ci andavo con mio padre a diffondere l’Unità. E mia sorella con mia mamma .
Era più o meno la metà degli anni ’60 e io ero alle elementari.
Mio padre era giovane e politicamente preparatissimo. Parlava e parlava e cercava di convincere chiunque della validità della sua idea di comunismo.
Un’idea che si era formata su solidissime basi di filosofia al liceo francese del Cairo dove aveva quel suo professore comunista di cui, a volte, ancora ci racconta.
Ed era un’idea solida al punto da averlo costretto a scappare in Francia quando gli trovarono un ciclostile a manovella nascosto in quel ripostiglio alto del bagno della casa di famiglia, in via Amir Kadadar, a Il Cairo, dove viveva con sua madre, suo padre e i suoi due fratelli. E Fatma, la donna di servizio araba.
Il suo gruppo politico traduceva in arabo, dall’inglese e dal francese, testi marxisti e leninisti e li diffondeva tra la popolazione autoctona.
Lui era giovanissimo, non aveva nemmeno vent’anni, era pieno di voglia di cambiare le cose, di migliorare il mondo. Era andato alle piramidi a fare un giro in bicicletta e gli sono corsi incontro i suoi amici sulla via del ritorno: “Sauve-toi, sauve-toi, la police est chez toi! Ils vont te mettre en prison! Ils ont trouvé…” E lui è scappato ed era soltanto un ragazzo, un ragazzo intelligente e coraggioso. Anche bello.
E’ ancora intelligente e coraggioso e bello. Non è più un ragazzo ma un grande vecchio. Un ottantenne come ce ne sono pochi. Ancora sostiene con forza e determinazione le sue idee che sono, nel tempo, coerentemente e graniticamente, rimaste le stesse, identiche e forti.
Va ancora in piazza con banchetti, cartelli e volantini a convincere la gente che il mondo può e deve cambiare.
E ancora frequenta assiduamente la sezione di Borgo palazzo che adesso è quella del PD.
Qualche mese fa lo hanno festeggiato in sezione. Hanno brindato ai suoi 80 anni.
“Unità” richiama alla mia mente (molto prima che quella “d’Italia”), la “diffusione” che facevo con mio papà, suonando i campanelli delle case di ringhiera di Borgo Palazzo.
L’Unità era ed è restata, nei miei ricordi, quella: l’organo di stampa del Partito Comunista Italiano.

giovedì 19 gennaio 2012

da Enea Pandolfi

Mi sono iscritto alla FGCI di Codigoro (FE) nel 1973, all’età di 21 anni, con tessera firmata da Renzo Imbeni.
Nel 1977 diventai segretario della sezione A.Gramsci di Codigoro e ho firmato la mia tessera al PCI come segretario di sezione, vicino a quella di Enrico Berlinguer.
La sezione A.Gramsci nasce in quell’anno dalla divisione dell’unica sezione di Codigoro.
Dal centro venne l’indicazione che le sezioni troppo grandi -non funzionavano (?!?) e
quindi un apposito congresso decise di costituirne due e così io diventai il primo segretario della nuova sezione. Il lavoro era tanto. Per convocare i compagni la lettera con l’ordine del giorno si portava a casa, il solo pensare di inviare per posta significava sprecare i pochi soldi della sezione!
La sede della sezione nuova era stata individuata in un negozio – ex barberia- arredato con un armadio di recupero, una scrivania, alcune sedie. Alla prima riunione alcune compagne criticarono, non molto velatamente, la pulizia della Sezione; cosi’ prima della riunione successiva provai a convincere mia madre ad andare a spazzare e lavare il pavimento; riuscii solo a convincerla di regalare alla sezione una scopa, secchio, straccio e scopone e per la prima volta nella mia vita spazzai e lavai il pavimento con buon risultato perché non furono ripetute le critiche!. Nella primavera successiva ci furono le elezioni amministrative; organizzammo interminabili riunioni in tutte le sezioni del comune per preparare il programma e la lista dei candidati.
L’esperienza suggeriva che tanti compagni/e erano abituati, e facilitati, dal fatto che il simbolo del PCI era il primo in alto a sinistra; per ottenere questa posizione bisognava presentare il simbolo e la lista per primi, e in base alla legge allora vigente, sarebbe stato il primo simbolo sulla scheda elettorale. La lista dei candidati ed il simbolo andavano presentati, in un giorno preciso, al Segretario del Comune in Municipo, quindi si organizzava una staffetta, che iniziava a presidiare il primo posto per la presentazione della lista e del simbolo almeno una settimana prima – la data e l’orario di inizio della staffetta era un segreto custodito gelosamente, per evitare che il PSI iniziasse prima; la DC invece lavorava per arrivare all’ultimo minuto e quindi essere l’ultima nella scheda elettorale. Il compagno Luzzi Obes una notte parcheggiò la macchina sotto il loggiato del Comune, ed iniziò il presidio; in macchina era esposta la bandiera della sezione e diventò un punto di ritrovo per tutta la cittadinanza. Una notte la staffetta era affidata a due giovani della FGCI, che però non vigilarono con la dovuta attenzione, e mentre dormivano in macchina qualcuno rubò la bandiera della sezione!!!! Il Direttivo si riuni’ immediatamente e alle reprimende degli anziani, Obes tiro’ fuori la bandiera nel giubilio generale, l’onta era lavata, con la rivelazione che era stato tutto uno scherzo per dimostrare che i ragazzi non vigilavano ma dormivano.
Rendiamo testimonianza al compagno Luzzi Obes, sempre pronto ad affiggere manifesti ai muri, a portare a casa dei compagni L’UNITA’ e che purtroppo ci ha lasciato troppo presto.

lunedì 9 gennaio 2012

da Nando Santoro

Febbraio 1980. I sovietici hanno invaso l'Afghanistan da alcune settimane. Si è discusso a lungo se e quando fare un dibattito sulla questione. E poi: discutere solo nel direttivo? Fare un direttivo “allargato”? Da segretario del circolo della FGCI, ero “invitato permanente” alle riunioni dell'organismo, senza diritto di voto. Si decide, alla fine, per la convocazione di un'assemblea degli iscritti. E si stabilisce di farla un sabato sera, per consentire a tutti di partecipare. La Federazione invia il segretario di zona.
Più di 100 persone presenti (su 300 iscritti). Al loro posto – cioé in fondo alla sala - i figgicciotti.
Introduzione del segretario della sezione che, con equilibrio ammirevole, riesce a dare torto all'Armata Rossa e ai Mujaheddin.
Primi interventi di marca filosovietica, abbastanza scontati, ché si tratta dei compagni più anziani. Noi ragazzotti li ascoltiamo con defernza, ma quando uno di loro afferma che “i ragazzini afghani hanno accolto con i fiori e gli applausi” il soldato Ivan, ci scappa un sorrisetto. La Presidenza ci fulmina con lo sguardo. Poi parla l'ingraiano, che critica aspramente l'invasione. Da quel momento in poi, si sfiora più volte la rissa: compagni che posano platealmente la tessera sul tavolo della presidenza, filosovietici che nei loro interventi parlano della necessità dell'intervento militare per contrastare la reazione filoamericana, altri che criticano aspramente le scelte del Pcus, infiniti botta-e-risposta sulla differenza fra “imperialismo” (che è americano) e “politica di potenza” (che è quella sovietica, è la stessa cosa ma come fai a dire che i russi sono imperialisti). Scontro sanguigno, il contatto fisico viene evitato solo perché ci sono le compagne che tengono a bada i mariti.
Dopo circa 4 ore, la parola al segretario di zona. Noi ragazzini pensiamo: mo' questo ci fa un cazziatone per i modi a dir poco esagitati con cui si è discusso. E infatti.
“Compagne e compagni – esordisce Velardi – prima di tutto, una premessa di metodo”. Eccolo là. “La prossima volta, mai più queste riunioni il sabato sera. Il sabato sera dobbiamo stare con le famiglie, andare al cinema, fare una passeggiata. Ma vi pare che possiamo stare 4 ore chiusi qua dentro a litigare sull'Afghanistan mentre il mondo gira per conto suo?”. I filosovietici si guardano perplessi. Qualcuno gli dà sottovoce del “provocatore”. Noi ragazzotti, infami, sorridiamo.

sabato 7 gennaio 2012

da Milena Marani

Era il 9 giugno 1984, mi ero appena alzata nella mia nuova bella casa. Avevo acceso Radio Popolare, come sempre, come era d’abitudine nella mia nuova bella casa. Trent’anni avevo, come mio marito, che mi stava versando il caffè. Trasmetteva il direttore di allora, un certo Gad Lerner, che dava la notizia che Enrico Berlinguer mentre teneva un comizio a Padova la sera precedente, aveva avuto un malore ed era ricoverato in fin di vita all’ospedale. Non riuscì a continuare Lerner, interruppe la trasmissione, stava piangendo. Rimasi con il caffè in mano, istupidita, stavo piangendo, non potevo accettare quella notizia. Mi ricordo il fazzolettone di cotone, quelli grandi che adesso non si usano più, che mi passò mio marito. Piansi come una bambina, con lacrime che scorrevano e singhiozzi che non mi facevano respirare.
Compresi subito che era finita.
Non c’erano allora telegiornali in edizione straordinaria o,almeno, non ricordo che ce ne siano stati.
Attendemmo fino al pomeriggio per vedere quelle immagini. Me le ricordo: Berlinguer che parla in una piazza colma di gente, si appoggia al microfono, sta visibilmente male, beve un bicchiere d’acqua, ma non ce la fa proprio, lo sostengono, lo allontanano dal palco. E’ l’ultima immagine che ho di lui vivo.
Poi il Presidente Pertini che parte per Padova, lo ritraggono nella sala d’attesa dell’ospedale, con la moglie e i figli di Enrico, sono in attesa.
Due giorni dopo la notizia che tutti temevano e che nessuno voleva sentire: Berlinguer era morto, senza più riprendere conoscenza, era morto mentre faceva il suo lavoro, mentre parlava alla gente, alla sua gente, a me, a mio marito, ai nostri compagni della sezione. Era morto come era sempre vissuto, come un uomo vero, come un comunista vero, intelligente e caparbio come la sua Sardegna, come un uomo onesto, pulito. Mi ricordo le parole di Pertini, che lo riportò a Roma sull’aereo presidenziale: “Porto a casa un figlio”.
Non sono riuscita ad andare ai funerali, non ce l’ho fatta a vedere la televisione, non ho mai più riguardato quelle immagini, anche se ho comprato la cassetta al festival dell’Unità. Ce l’ho ancora quella cassetta VHS, che scema, non ho neppure più il videoregistratore. Eppure quella cassetta e i numeri speciali dell’Unità li ho ancora tutti, mi hanno seguita nei miei traslochi della vita.
Quattro giorni dopo, il 15 giugno vincemmo le elezioni, il PCI era il primo partito d’Italia, ma noi, i compagni della sezione non eravamo felici, anche se quella fu la vittoria più bella, dedicata a Enrico, a tutti noi.
Sono passati quasi trent’anni, ho quasi l’età di Berlinguer quando è morto. Ho due figli e a loro racconto, ogni tanto, di quel lontano giorno di giugno, e forse gli occhi luccicano e piange il cuore.