mercoledì 26 settembre 2012

da Vincenzo Marini 1


In viaggio per Strasburgo


   Dal 1978 al 1984 ho lavorato intorno alle vicende del terrorismo italiano e della cosiddetta strategia della tensione. Responsabile, dal 1979, della sicurezza del PCI, facevo parte della sezione Problemi dello Stato, diretta da Ugo Pecchioli. In ragione del mio ufficio, ho conosciuto da vicino tutti i dirigenti nazionali del partito e frequentata in lungo e in largo la nostra organizzazione periferica. Un viaggio incredibile dentro un’altra Italia.  Negli anni di piombo le misure di prevenzione e sicurezza contro attentati, infiltrazioni, provocazioni, verso le nostre sedi e i nostri dirigenti, nazionali e locali, occupavano il mio tempo senza un attimo di respiro. Non era un lavoro organizzativo - anche se le misure pratiche venivano predisposte con la cura meticolosa tipica della cultura dei partigiani comunisti - ma soprattutto di conoscenza: di intelligence .

   “Marini, sei il nuovo responsabile della sicurezza, vero?! Il vocione di Giorgio Amendola ruppe i miei pensieri, seduto sulle ultime file dell’aereo che portava da Roma a Strasburgo, il 13 luglio del 1979, Enrico Berlinguer e altri dirigenti comunisti,  per l’insediamento del primo parlamento europeo. “Vieni a Strasburgo per vedere con i tuoi occhi come siamo messi?” – non mi diede neanche il tempo di rispondere e continuò, “Bravo, ma ricordati che la vigilanza non è fatta di misure tecniche. E’ un’arte  la vigilanza!” Probabilmente lesse nei miei occhi un qualche smarrito interrogativo perché continuò dicendomi: “Tanti anni fa, dopo il ’45, Togliatti venne a Napoli. Salvatore Cacciapuoti era talmente preoccupato per la sua sicurezza che, per alloggiare il capo del partito,  predispose una intera palazzina, svuotata dalle famiglie, in un quartiere operaio, e mobilitò un numero spropositato di compagni per vigilare. Non ero d’accordo con queste misure che isolavano Togliatti da Napoli e caricavano solo sulle nostre spalle la responsabilità della sua sicurezza.. Mi rivolsi a un vecchio amico monarchico che possedeva un albergo molto importante e gli dissi: Devi alloggiarmi  l’uomo politico che assieme a De Gasperi è tra quelli più importanti d’Italia. Si hai capito bene, Palmiro Togliatti , e ti riterrò responsabile se gli accadrà qualcosa. Ce la cavammo con un paio di compagni a fare la guardia fuori il corridoio e un giovane studente universitario, Giorgio Napolitano, che fungeva da ufficiale di collegamento.” Mentre rideva, ammiccando verso la moglie Germaine, io ero completamente nel pallone per quella lezione così lucida, per quella sensibilità umana e quella curiosità che lo aveva spinto, vedendomi certamente assorto e spaesato, a curarsi della mia prima volta.

venerdì 21 settembre 2012

da Vincenzo Crolla


LO SCIOPERO DELL'AGOSTO 75

Scoppiò all'improvviso. Meglio deflagrò. Inaspettato; e stupefacente. Si era più o meno a Ferragosto, uno dei tre periodi di più intenso traffico: Nord/Sud nei primi giorni del mese, il contrario, Sud/Nord dopo il 15. Venivano giù gli emigrati al Nord. A frotte. Venivano a trascorrere le poche ferie presso vecchi genitori, spesso braccianti; al meglio contadini o mezzadri in Calabria, in Sicilia. Ovunque nei paesini riarsi al di là di Eboli e Battipaglia. Era uno dei tre momenti critici per le Ferrovie. Gli altri due: Pasqua e Natale. Se volevi metter in ginocchio il Paese, se volevi far cadere un Governo era quello il momento buono. E arrivò. Come un ciclone. Autonomi e fascisti, FISAFS e CISNAL, bloccarono tutto. Gli altri due diversi da noi SFI, la Cisl e la Uil alla finestra ma sostanzialmente gongolanti. Si stava giocando una partita solo in parte sindacale. Il PCI alle elezioni di due mesi prima, le amministrative del Giugno '75 era stato travolgente. Un fiume di voti e io candidato. Candidato e votato dai ferrovieri. Quegli stessi che adesso, al culmine dell'esasperazione, e a prescindere dalle opinioni politiche, occupavano i binari, abbandonavano i passaggi a livello incustoditi, lasciavano le linee elettriche senza manutenzione. Avevano ragione: turni massacranti e paghe basse. Lo SFI, il glorioso SFI, retto ancora nel '75 da ex partigiani faceva orecchi da mercante. Troppo nobili i nostri obiettivi di partigiani comunisti per piegarsi alla volgarità di discutere di paghe: e allora fu la guerra. E in guerra non si discute. Se poi a far la guerra sono i comunisti "Obbedisco" è la routine. Fummo tutti mobilitati. L'ordine perentorio e indiscutibile era far marciare i treni: a qualunque costo. Non precettati dall'Azienda, no. Mobilitati dal Sindacato e dal Partito Comunista; per una volta insieme, senza polemiche; sulla stesa barricata. Bisognava battere i fascisti che fomentavano la jacquerie. E noi là, quindi. E io là. "Roma-Palermo Crolla, devi scortarlo perlomeno fino a Sapri". Saranno state circa le 19,30. Sono tornato da Sapri alle 17,00 del giorno successivo. Passaggi a livello aperti, segnalazione inesistente, di capistazione neanche l'ombra. Io e Elio, Capotreno e macchinista, lui con una chiave inglese sul banco, Non si può mai sapere Enzo in giro ci sono troppe teste calde. Dovevamo arrivare siamo arrivati Siamo arrivati a Campi Flegrei stanchi e sudati. Al binario 1 della stazione, nella Sala d'attesa il Partito aveva organizzato una piccola task force (Eugenio Donise, Pierluigi Cossu, Rino Marzano ed altri che non ricordo) a protezione di coloro che, come me, avevano scelto l'epica all'umanissima viltà. Accanto alla sala d'attesa vicino alla Sala Movimento circa 200 ferrovieri: sudati, arrabbiati, stanchi. Increduli e inviperiti verso chi, anziché essere li con loro, praticava un crumiraggio all'incontrario. Io poi, ero per loro particolarmente odioso. Appena due mesi prima mi avevano votato. Quando hanno visto scendere me da quel treno non credevano ai loro occhi. Il brusio è cresciuto...Via via si faceva protesta aperta. Mi aspettavano al varco. Per riprendere l'auto e andare a casa dovevo per forza passare davanti a loro che erano appostati tra la Sala d'Attesa dove era acquartierato il Partito e il parcheggio. Cossu e Donise mi sono venuti incontro con intento protettivo, con l'intenzione di scortarmi fino all'auto. Ti accompagniamo, No compagni farmi accompagnare è come dichiarare il proprio torto, devo andare da solo, E' rischioso, Fa niente, rischierò. E borsa alla mano mi sono avviato. 400 occhi mi guardavano severi, curiosi, interrogativi, Perché tu? Perché tu non scioperi? Ti abbiamo dato il nostro voto perché tu ci ripagassi cosi? Questo dicevano quegli occhi; e intimavano che io abbassassi i miei. Se l'avessi fatto sarebbe stata una sconfitta. Non solo per me. Non li abbassai. Avevo paura ma non li abbassai. Il mare di persone lentamente si aprì e potei tornare per quel giorno a casa dai miei. Due mesi dopo, Geremicca vigente, mi fu ordinato di lasciare l'impegno al Partito e di assumere una qualche responsabilità nel Sindacato....A quel tempo non si chiedeva...si ordinava e, si si accettavano le regole, non si discuteva, si ubbidiva e, a malincuore, ubbidii. 
PS. Contarello eccoti il tuo fottutissimo raccontino zeppo di retorica. Sarà vero..sarà falso...Forse è un mito? La realtà è ciò che accade o ciò che noi raccontiamo? Ai posteri l'ardua sentenza.....


da Fulvio Wetzl


Via de’ Giubbonari

1972, appena arrivato da Milano, dove sfilavo da ragazzo in prima fila con “gli unici comunisti riconosciuti da Pechino” (Servire il Popolo), sulla 94, dalla Piramide verso il Pantheon, incrocio Giorgia, in piedi, davanti a me, seduto. Ha i libri legati con una cinghia di gomma. “Vuoi che ti tenga i libri?” le chiedo titubante. Dopo nemmeno un giorno stiamo già facendo l’amore a Tormarancio, dentro un cespuglio, ambedue ancora in famiglia con case indisponibili, mentre sotto, nel canyon, tre ragazzotti smontano una moto appena rubata. Più graffi di cardi sulle cosce che vero piacere, ma vicinanza ansimante assoluta. Dopo, fumando, mi chiede, il nome ce lo siamo già detti, come se fosse una condizione imprescindibile: “Io sono comunista, tu… ?” Mi guarda ferma, con occhi, neri come laggiù tra le sue gambe, dove io esito a guardare. “Anch’io” - farfuglio. “Comunista, del PCI, intendo” - e tira fuori la tessera, mostrandomela con fierezza - “Tu ce l’hai?” “Si sono del PCI, anch’io - mento non alzando gli occhi - ma non ho la tessera… Ancora…” - aggiungo mormorando. “Allora non sei ancora del PCI”. Si è alzata e mentre si allaccia la camicetta, con un piglio da campagna tesseramento, dice senza esitazione - “Andiamo subito a farla” - è bella, è alta, ha le cosce lunghe, me ne accorgo solo ora - “Alla mia sezione. Regola-Campitelli, in via de’ Giubbonari , Campo de’ Fiori” Ha un tono perentorio, come se dicesse “senza tessera non sto con te”. “Andiamo - dico con maggior convinzione, “ne vale la pena” penso, ora che la guardo senza più esitazioni mentre sto per conquistarmi il diritto di farlo - “Prendiamo la 94, va bene per andar là?”. Giorgia ride: “La 94, ma come parli? Il 94! Già, che sei di Milano” dice a sfottò, mentre intreccia le dita con le mie. Risaliamo la proda.
Il compagno dietro una scrivania, piccola da sembrare un banco, ha finito di compilarmi la tessera, io ho appena pagato la quota, “soldi ben spesi” - ho pensato e mi riguardo la mia donna che ora fa gli onori di casa. “Brava Giorgina - la saluta il ragazzo - benvenuto compagno… Fulvio - legge e mi sorride, complimentandosi per la conquista - …Wezzele -
storpia il nome - che sei de’ Bolzano? con ‘sto cognome…”. “No, sono d’origine austriaca, ma so’ italiano, de Padova” - romaneggio. Poi guardo la mia Giorgia che mi porta nelle varie stanzette anguste, fino alla sala. Ci sono tante piccole riunioni informali “de quartiere” - in ogni stanza. “Ma perché ti chiamano Giorgina? Sei così alta…” “Mi ci ha chiamato sempre mi’ padre e loro lo sanno” - dice come a giustificarsi. “Per me sei Giorgia” - dico con piglio sicuro. “Giorgia, la donna tua!” replica contenta affondando i suoi occhi nei miei. “Conosci questo?” - è arrivata vicino al ciclostile e me lo indica. “Certo, il ciclostile”, replico con saccenza. Individuo il correttore e glielo passo. “E questo è il correttore. È rosa, una cosa per signore”- dico scherzoso. “Infatti io ti correggo e poi ti mazzòlo se occorre!” dice ghignando, agitando la mano minacciosa. “I comunicati li faccio io. - mi dice con fierezza - prima li scrivo sulla matrice. Poi li correggo e li stampo. La prossima volta mi guardi, così impari”. “Ma li so fare. Li facevo già a Milano”- dico orgoglioso. “Dove?” - mi guarda sospettosa Giorgia. In tutta risposta la spingo verso l’uscita. Via de’ Giubbonari nella prima sera, vetrine già accese. Giorgia fa gli onori di casa anche qui sulla strada. “Quella è la più piccola chiesa di Roma”- In fondo alla piazzetta a trapezio c’è la minuscola facciatina. -“Santa Barbara”. “Speriamo che non scoppi” - dico giocando sul nome. Giorgia non capisce. “Magari… ma qui comandano loro, anche se qui - siamo arrivati a Campo de’ Fiori - nun ce sta neanche una chiesa, è l’unica piazza, credo, qui a Roma.” - Guarda verso l’alto: “Però vedi che fine gli fanno fa’, a chi nun la pensa come loro?”- Leggo il nome di Giordano Bruno sul basamento della statua, nera di bronzo e di crepuscolo. Ci troviamo tutt’e due, imbambolati con la stessa espressione corrucciata di Bruno. “Ce lo facciamo un cinemino?”- rompo gli indugi, adocchiando il Farnese. “Sì, ma quanto costa?” - esita Giorgia - “Che ti frega, pago io” - faccio il magnifico, romaneggiando a mio agio. “Sì, ma guardiamo il film” - dice lei sorniona. “Se il film merita, lo guardiamo…” Me la bacio di gusto, le cingo le spalle con il braccio e la spingo verso la porta a vetri, dentro la hall.

Da Giovanna Borrello

TRA  CGIL  e PCI: vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor………… 

Ho cominciato a praticare la politica nelle aule universitarie nel ‘68. E poiché avevo scritto sui muri dell’Università per circa 3 anni di seguito frasi come “Il PCI Revisionista” e così via, con la crisi del movimento non mi fu facile iscrivermi a quel partito che avevo osteggiato con tanta ostinazione. Virai, dunque, verso la CGIL , che negli anni ‘70 si poteva definire un vero movimento di massa, e quindi più in continuità con il movimento studentesco. Ho ricoperto ruoli importanti a livello territoriale presso la Camera del lavoro di Napoli (la prima coordinatrice delle donne) e la CGIL Nazionale Scuola. Mi iscrissi anche al PCI nel ‘74 senza la costanza del vero militante. Capii alcune caratteristiche di questo partito all’indomani di un Convegno organizzato dal Sindacato Nazionale Scuola a Genzano, presso la scuola di formazione politica della CGIL Nazionale. Eravamo in pieno femminismo, verso la metà degli anni ‘70, le protagoniste erano in buona parte insegnanti iscritte alla CGIL scuola. Di questo dato si erano resi conto l’allora segretario Bruno Roscani e Gian Mario Cazzaniga, responsabile del settore universitario. Da bravi dirigenti, quindi, pensarono che fosse opportuno per capire meglio i problemi della categoria molto femminilizzata e femministizzata, dotarsi di uno strumento che chiamammo esecutivo “Donna-Scuola–Sindacato”. Il nucleo principale di questo organismo era formato oltre che da me e da Anna Franca Tana, iscritte al PCI, da Rossana Pace del PSI. Dopo qualche anno di lavoro sul territorio decidemmo di organizzare un convegno nazionale di verifica politica. Già la fase preparatoria fu complicata, perché tra i promotori figurava il coordinatore dell’esecutivo che era un maschio, tra l’altro disgraziatamente con un cognome molto fallico, Cazzaniga. Questa infelice circostanza attirò su di noi critici strali e irripetibili invettive delle iscritte inferocite della CGIL scuola di tutta Italia. Ma fu poi il Convegno una vera catastrofe! La relazione iniziale di Cazzaniga fu tollerata a malapena, filtrata da noi donne riconosciute dal movimento; le conclusioni fecero, invece, del tutto precipitare la situazione. La compagna della Segreteria Confederale Donatella Turturo, una donna intelligente, chiamata lì per la sua grande esperienza a gestire assemblee difficili, presa, forse, da ri-sentimenti tipicamente femminili alla vista di tante belle e gaie donne in abiti fiorati zoccoli (la nostra divisa) Lei stretta in un triste tailleur grigio scuro, iniziò le sue conclusioni precisando volutamente che il convegno non era “un convegno delle donne ma sulle donne”. Al risuonare di quelle sacrileghe parole, che avevano affondato il coltello nella piaga della tanto discussa questione “donna oggetto”, ci fu una levata di scudi: attacchi isterici, urla, pianti, mentre una nutrita schiera di donne si staccava dal resto dell’assemblea e si dirigeva verso la presidenza, qualcuna agitando anche tra le mani gli zoccoli, in segno di protesta. La compagna confederale fu portata a stento in salvo dal direttore della Scuola di Genzano, il compagno Buonadonna, Salvatore di nome e di fatto, che, quale capitano coraggioso, guidò un manipolo di robusti e fieri operai (impegnati in un’aula adiacente) al grido: salviamo la presidenza e la Turtaro dall’attacco femminista. Il PSI non condannò l’accaduto, Rossana Pace non subì contraccolpi; Anna Tana ed io, invece, iscritte al PCI, fummo chiamate in giudizio da Adriana Seroni e processate: l’accusa era di non aver saputo gestire la situazione ,perché non avevamo concordato prima la “linea” con la Sezione Femminile del Partito. Quando io, per difesa, usai l’argomento(in quel periodo molto dibattuto) che la CGIL non era più “la cinghia di trasmissione” del PCI, mi fu detto a chiare lettere che una cosa erano i proclami congressuali e gli slogans della propaganda un'altra le azioni politiche concrete. Fu per me, questo, il vero primo incontro o impatto col Partito Comunista Italiano. Quel granitico compatto PCI mi apparve per la prima volta quale era in realtà: un Giano Bifronte. Giovanna Borrello