mercoledì 8 febbraio 2012

da Pompeo Volpe

Breton Woods e gli iscritti alla Cellula di Medicina

Nel 1976, l’annuale congresso della Cellula di Medicina della Sezione universitaria del PCI di Padova, cade il 17 febbraio. Ricordo la data perché: a) ho buona memoria, b) la mia agenda del 1976 lo certifica, c) il giorno dopo cade il mio ventunesimo compleanno, e d) il relatore di quel congresso sono io, il segretario uscente dalla cellula di Medicina.
Ho già assistito a due congressi di Cellula e a due congressi di Sezione nei due anni precedenti e ho capito lo schema della relazione introduttiva. Dal generale al particolare, dalla situazione mondiale alla situazione italiana, dalle questioni universitarie a quelle della Facoltà di Medicina -i tre assi portanti-. La fase che stiamo affrontando deve essere inscritta e spiegata nel quadro generale.
E’ la mia prima relazione congressuale. Qualche giorno prima del 17 febbraio -ahi, non mi ricordo quando-, mi siedo alla scrivania e preparo una dettagliata scaletta che copre e sviluppa i citati tre assi, mi dilungo sulla situazione locale in divenire, sulle lotte in Università -c’è pure una occupazione dell’Istituto di Anatomia Umana- per indicare i nostri compiti. Ma mi manca l’inizio avvolgente che fa calare il silenzio ed aumentare l’attenzione. Penso lentamente, il tempo passa inutilmente, poi lo sguardo mi cade sui volumi della rivista bimestrale Politica ed Economia -dell’oracolante CESPE- che sono in un angolo della mia libreria, appena sfogliati ogni volta che arrivano per posta, mai letti con attenzione. Mi alzo, ne sfoglio alcuni nuovamente. Mi fermo. Ho trovato: la denuncia degli accordi di Bretton Woods voluta dal presidente Nixon il 15 agosto 1971. La scelta è fatta, sono soddisfatto.
17 febbraio, 1976, poco dopo le 15, sede della Sezione universitaria di via Santa Sofia 5. Mi alzo in piedi, estraggo dalla tasca destra della giacca di velluto blu i foglietti-cartoncino di una iniziativa con Pietro Ingrao del 26 maggio 1975 (sempre certificato dalla mia agenda), sul retro dei quali ho schematizzato la relazione, e li poggio sul tavolo della presidenza. La mia relazione inizia con la definizione degli accordi di Bretton Woods, la loro denuncia e la descrizione degli effetti economici e finanziari a livello mondiale, dello shock provocato da Nixon. La relazione continua, come previsto, con il restringimento del cono visuale fino alla valutazione dell’occupazione in corso ad Anatomia. Dopo quaranta minuti circa concludo. Mi siedo accompagnato da applausi appena al disopra del livello di cortesia.
Torna il silenzio ed il compagno Fulvio Palopoli -è morto da poco tempo e me ne dispiace tantissimo-, il dirigente cui toccherà il compito di concludere il dibattito ed il Congresso, con un sorriso appena accennato mi domanda: “Compagno Volpe, va bene Bretton Woods, ma quanti iscritti ha la cellula di Medicina?”. Il silenzio è rotto da una sonora, squillante, giovane, contagiosa risata dei compagni presenti. Gli accordi di Bretton Woods e la loro denuncia sono archiviati, non avrebbero sicuramente animato il successivo dibattito congressuale. Il dato semplice ed essenziale che ho dimenticato di comunicare è però disponibile: gli iscritti sono 65.

lunedì 6 febbraio 2012

da Stefano Fodra

Venti giorni alle Frattocchie
« Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch'è pura luce:
luce intellettüal, piena d'amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai l'una e l'altra milizia
di paradiso, e l'una in quelli aspetti
che tu vedrai a l'ultima giustizia. »
(Paradiso XXX, 38-45)


1.
Era lì un piccolo grande Olimpo, meglio l’Empireo primum mobile, quello a cui comuni mortali compagni difficilmente avrebbero avuto accesso se non per via di indecifrabili macchine iniziatiche, che, appunto per me, rimangono e penso rimarranno in gran parte e per sempre tali.
Oppure per un colpo di fortuna, quello che percepii di avere avuto io in quel momento: tanto lontanamente vagheggiato e tutto sommato immeritato. Questo pensai.
Lì a pochi passi da me si era materializzato il nuovo Segretario, l’Alessandro Natta-dopo Berlinguer, colui cui erano stati affidati scettro e vessillo, uomo elegante e sobrio, volto retrò ammiccante e ridente.
C’era un ristretto circolo intorno a lui, che lo recingeva ed elevava, lo consacrava ad ogni passo. Nello stargli attorno e nello stringersi a lui, tracciava al medesimo tempo, in modo rituale un anello impalpabile e impenetrabile.
Toccava proprio a quegli uomini segnare lo stacco necessario, quello dovuto al capo, quello a cui ciascuno in fondo allegava il proprio stesso senso di appartenenza, di ruolo e, perché no, la propria futura aspettativa, per merito o ancora per fortuna.
All’assemblea convocata per inaugurare quel lungo corso di studio alle Frattocchie, c’erano Cossutta, Reichlin, altri sommi dirigenti del Pci; poi i professori, gli indipendenti Caffè, Spaventa, Rodotà, anche loro stretti intorno al Segretario.
Lo salutavano con un contegno nuovo, rielaborato, rispetto a quello che solo alcuni giorni prima potevano solitamente riservare al compagno Alessandro.
Per un momento ripensai a quante ore di faticosa ammirazione, in preparazione degli esami universitari, avessi trascorso sui testi di quei professori, che ad un tratto sembravano usciti dai loro libri come geni dalla lampada e ora si mostravano a me nelle loro distinguibili sembianze umane.
Natta, dal canto suo, declinava continuamente, con un composto sorriso, associato ad un lieve gesto della mano, ad arginare, più che a scansare, ogni imbarazzante segno, parola o gesto di omaggio ed eccessiva deferenza.
Se allora avevo ammirato quel comportamento fine e forbito, qualche tempo più avanti, quando si poteva ancora credere al miracolo di una rimonta d’immagine, ne provai un crescente fastidio.
Natta, quasi a voler rimediare ad un ostracismo televisivo troppo smaccato, fu invitato mesi dopo , in prima serata Rai, da una più che disponibile e affabile Raffaella Carrà; milioni di italiani a vederlo, tanti di noi a tifare per uno scatto d’orgoglio: invece lui continuò a declinare, con quell’elegante e inutile gesto della mano.
Così dovemmo aggrapparci, con tutte le nostre forze, alla Raffaella, un naufragio sulla migliore zattera che il servizio pubblico poteva passarci.
Anni dopo, l’elegante illuminista, giacobino e comunista Natta si autodefinì come l’ultimo segretario del PCI: vero, anche per questo l’ho sempre rispettato. Anche amato.
Ma intanto, alle Frattocchie, quella piccola processione era sfilata proprio a due passi da me.
Era il luglio del 1984 e il Pci era in una crisi nera, irreversibile, ormai segnata dalla vicenda concreta di tutti i giorni e - in maniera ancora più cruda e sadica verso i suoi integerrimi e appassionati militanti - da quella scritta e perpetrata dal gigantesco mercato dei lustrini, che ormai invadeva ogni più comune sentire.
Era il “sogno” che tutti volevano e noi, che quel sogno volevamo negare; chi anni prima aveva taciuto, ora parlava, parlava anche troppo.
Ogni stupido era come impazzito di facili parole nei bar, nei luoghi pubblici, in qualsiasi occasione: il Pci era vecchio, superato, nemico della modernizzazione, il Pci era in declino, l’Italia aveva bisogno di aria nuova, i lavoratori e le lavoratrici ora volevano abiti nuovi, griffe e imitazioni luccicanti, via le divise, via gli stracci opachi di un tempo passato.
Le masse? I collettivi? I gruppi? Tutto da polverizzare, disarticolare, individuo per individuo, e ricomporre in nuovi aggregati impalpabili ed interscambiabili. Il consumismo? Solo un “ismo”, basta con gli “ismi”, ogni parola ora finisce per semplice “o”, come io. Comunismo, finisce in “ismo”! Non va bene.
Molti dei nostri abbozzavano difese sempre meno irresistibili, altri dei nostri ogni giorno più numerosi, adesso tacevano, si appartavano dalle discussioni, come indifesi: la fierezza della diversità, ora dopo ora, andava consumandosi.
Si avvertiva chiaro che un’identità tanto orgogliosamente rimarcata ed esibita, ineluttabilmente stava precipitando in una sorta di rarefatta alienazione; tanti cedevano, magari piano piano, altri si aggrappavano sempre più forte, ripetendosi che quello, altro non poteva essere che uno dei tanti e banali incidenti della storia.
Un incidente passeggero, una rivoluzione passiva di breve termine.
Le ragioni materiali avrebbero ben presto ed inevitabilmente sopraffatto quelle rampanti chimere della vacuità e voracità degli anni ’80: intanto il compagno Nicolini a Roma inaugurava, per tutta risposta, le stagioni dell’”effimero”.
Quando mi arrivò la telefonata, stentai a credere: chiamato, anzi convocato alla Scuola nazionale quadri del PCI, a frequentare un corso sulla politica economica; “ venti giorni, senza interruzioni” , avvertì subito il compagno del Comitato Regionale, non si poteva dire no.
Baciato dalla fortuna, pensai, ma questo non si poteva ammettere, solo si poteva dire che qualcuno in alto, molto più in alto, che aveva il potere di chiamarti in ogni momento, aveva deciso e che non si poteva dire no.
Alle Frattocchie fu come arrivare ad una meta piena di misteri: già all’arrivo, dopo tante richieste d’informazioni ai vari benzinai vittime dell’inesistenza ancora dei Tom Tom, sembrò entrare in un mondo a parte, da un accesso celato.
(continua)….forse