domenica 22 gennaio 2012

da Nadia Mentasti

La domenica mattina si diffondeva L’Unità .
I compagni del PCI della sezione Antonio Gramsci di Borgo Palazzo prendevano sotto braccio un po’ di copie dell’ “Organo Ufficiale di Stampa del Partito Comunista Italiano” e suonavano i campanelli della gente del quartiere, cercando di convincerla a comprarne una copia e soprattutto a leggerla, per capire le ragioni del popolo e del PCI.
E io ci andavo con mio padre a diffondere l’Unità. E mia sorella con mia mamma .
Era più o meno la metà degli anni ’60 e io ero alle elementari.
Mio padre era giovane e politicamente preparatissimo. Parlava e parlava e cercava di convincere chiunque della validità della sua idea di comunismo.
Un’idea che si era formata su solidissime basi di filosofia al liceo francese del Cairo dove aveva quel suo professore comunista di cui, a volte, ancora ci racconta.
Ed era un’idea solida al punto da averlo costretto a scappare in Francia quando gli trovarono un ciclostile a manovella nascosto in quel ripostiglio alto del bagno della casa di famiglia, in via Amir Kadadar, a Il Cairo, dove viveva con sua madre, suo padre e i suoi due fratelli. E Fatma, la donna di servizio araba.
Il suo gruppo politico traduceva in arabo, dall’inglese e dal francese, testi marxisti e leninisti e li diffondeva tra la popolazione autoctona.
Lui era giovanissimo, non aveva nemmeno vent’anni, era pieno di voglia di cambiare le cose, di migliorare il mondo. Era andato alle piramidi a fare un giro in bicicletta e gli sono corsi incontro i suoi amici sulla via del ritorno: “Sauve-toi, sauve-toi, la police est chez toi! Ils vont te mettre en prison! Ils ont trouvé…” E lui è scappato ed era soltanto un ragazzo, un ragazzo intelligente e coraggioso. Anche bello.
E’ ancora intelligente e coraggioso e bello. Non è più un ragazzo ma un grande vecchio. Un ottantenne come ce ne sono pochi. Ancora sostiene con forza e determinazione le sue idee che sono, nel tempo, coerentemente e graniticamente, rimaste le stesse, identiche e forti.
Va ancora in piazza con banchetti, cartelli e volantini a convincere la gente che il mondo può e deve cambiare.
E ancora frequenta assiduamente la sezione di Borgo palazzo che adesso è quella del PD.
Qualche mese fa lo hanno festeggiato in sezione. Hanno brindato ai suoi 80 anni.
“Unità” richiama alla mia mente (molto prima che quella “d’Italia”), la “diffusione” che facevo con mio papà, suonando i campanelli delle case di ringhiera di Borgo Palazzo.
L’Unità era ed è restata, nei miei ricordi, quella: l’organo di stampa del Partito Comunista Italiano.

giovedì 19 gennaio 2012

da Enea Pandolfi

Mi sono iscritto alla FGCI di Codigoro (FE) nel 1973, all’età di 21 anni, con tessera firmata da Renzo Imbeni.
Nel 1977 diventai segretario della sezione A.Gramsci di Codigoro e ho firmato la mia tessera al PCI come segretario di sezione, vicino a quella di Enrico Berlinguer.
La sezione A.Gramsci nasce in quell’anno dalla divisione dell’unica sezione di Codigoro.
Dal centro venne l’indicazione che le sezioni troppo grandi -non funzionavano (?!?) e
quindi un apposito congresso decise di costituirne due e così io diventai il primo segretario della nuova sezione. Il lavoro era tanto. Per convocare i compagni la lettera con l’ordine del giorno si portava a casa, il solo pensare di inviare per posta significava sprecare i pochi soldi della sezione!
La sede della sezione nuova era stata individuata in un negozio – ex barberia- arredato con un armadio di recupero, una scrivania, alcune sedie. Alla prima riunione alcune compagne criticarono, non molto velatamente, la pulizia della Sezione; cosi’ prima della riunione successiva provai a convincere mia madre ad andare a spazzare e lavare il pavimento; riuscii solo a convincerla di regalare alla sezione una scopa, secchio, straccio e scopone e per la prima volta nella mia vita spazzai e lavai il pavimento con buon risultato perché non furono ripetute le critiche!. Nella primavera successiva ci furono le elezioni amministrative; organizzammo interminabili riunioni in tutte le sezioni del comune per preparare il programma e la lista dei candidati.
L’esperienza suggeriva che tanti compagni/e erano abituati, e facilitati, dal fatto che il simbolo del PCI era il primo in alto a sinistra; per ottenere questa posizione bisognava presentare il simbolo e la lista per primi, e in base alla legge allora vigente, sarebbe stato il primo simbolo sulla scheda elettorale. La lista dei candidati ed il simbolo andavano presentati, in un giorno preciso, al Segretario del Comune in Municipo, quindi si organizzava una staffetta, che iniziava a presidiare il primo posto per la presentazione della lista e del simbolo almeno una settimana prima – la data e l’orario di inizio della staffetta era un segreto custodito gelosamente, per evitare che il PSI iniziasse prima; la DC invece lavorava per arrivare all’ultimo minuto e quindi essere l’ultima nella scheda elettorale. Il compagno Luzzi Obes una notte parcheggiò la macchina sotto il loggiato del Comune, ed iniziò il presidio; in macchina era esposta la bandiera della sezione e diventò un punto di ritrovo per tutta la cittadinanza. Una notte la staffetta era affidata a due giovani della FGCI, che però non vigilarono con la dovuta attenzione, e mentre dormivano in macchina qualcuno rubò la bandiera della sezione!!!! Il Direttivo si riuni’ immediatamente e alle reprimende degli anziani, Obes tiro’ fuori la bandiera nel giubilio generale, l’onta era lavata, con la rivelazione che era stato tutto uno scherzo per dimostrare che i ragazzi non vigilavano ma dormivano.
Rendiamo testimonianza al compagno Luzzi Obes, sempre pronto ad affiggere manifesti ai muri, a portare a casa dei compagni L’UNITA’ e che purtroppo ci ha lasciato troppo presto.

lunedì 9 gennaio 2012

da Nando Santoro

Febbraio 1980. I sovietici hanno invaso l'Afghanistan da alcune settimane. Si è discusso a lungo se e quando fare un dibattito sulla questione. E poi: discutere solo nel direttivo? Fare un direttivo “allargato”? Da segretario del circolo della FGCI, ero “invitato permanente” alle riunioni dell'organismo, senza diritto di voto. Si decide, alla fine, per la convocazione di un'assemblea degli iscritti. E si stabilisce di farla un sabato sera, per consentire a tutti di partecipare. La Federazione invia il segretario di zona.
Più di 100 persone presenti (su 300 iscritti). Al loro posto – cioé in fondo alla sala - i figgicciotti.
Introduzione del segretario della sezione che, con equilibrio ammirevole, riesce a dare torto all'Armata Rossa e ai Mujaheddin.
Primi interventi di marca filosovietica, abbastanza scontati, ché si tratta dei compagni più anziani. Noi ragazzotti li ascoltiamo con defernza, ma quando uno di loro afferma che “i ragazzini afghani hanno accolto con i fiori e gli applausi” il soldato Ivan, ci scappa un sorrisetto. La Presidenza ci fulmina con lo sguardo. Poi parla l'ingraiano, che critica aspramente l'invasione. Da quel momento in poi, si sfiora più volte la rissa: compagni che posano platealmente la tessera sul tavolo della presidenza, filosovietici che nei loro interventi parlano della necessità dell'intervento militare per contrastare la reazione filoamericana, altri che criticano aspramente le scelte del Pcus, infiniti botta-e-risposta sulla differenza fra “imperialismo” (che è americano) e “politica di potenza” (che è quella sovietica, è la stessa cosa ma come fai a dire che i russi sono imperialisti). Scontro sanguigno, il contatto fisico viene evitato solo perché ci sono le compagne che tengono a bada i mariti.
Dopo circa 4 ore, la parola al segretario di zona. Noi ragazzini pensiamo: mo' questo ci fa un cazziatone per i modi a dir poco esagitati con cui si è discusso. E infatti.
“Compagne e compagni – esordisce Velardi – prima di tutto, una premessa di metodo”. Eccolo là. “La prossima volta, mai più queste riunioni il sabato sera. Il sabato sera dobbiamo stare con le famiglie, andare al cinema, fare una passeggiata. Ma vi pare che possiamo stare 4 ore chiusi qua dentro a litigare sull'Afghanistan mentre il mondo gira per conto suo?”. I filosovietici si guardano perplessi. Qualcuno gli dà sottovoce del “provocatore”. Noi ragazzotti, infami, sorridiamo.

sabato 7 gennaio 2012

da Milena Marani

Era il 9 giugno 1984, mi ero appena alzata nella mia nuova bella casa. Avevo acceso Radio Popolare, come sempre, come era d’abitudine nella mia nuova bella casa. Trent’anni avevo, come mio marito, che mi stava versando il caffè. Trasmetteva il direttore di allora, un certo Gad Lerner, che dava la notizia che Enrico Berlinguer mentre teneva un comizio a Padova la sera precedente, aveva avuto un malore ed era ricoverato in fin di vita all’ospedale. Non riuscì a continuare Lerner, interruppe la trasmissione, stava piangendo. Rimasi con il caffè in mano, istupidita, stavo piangendo, non potevo accettare quella notizia. Mi ricordo il fazzolettone di cotone, quelli grandi che adesso non si usano più, che mi passò mio marito. Piansi come una bambina, con lacrime che scorrevano e singhiozzi che non mi facevano respirare.
Compresi subito che era finita.
Non c’erano allora telegiornali in edizione straordinaria o,almeno, non ricordo che ce ne siano stati.
Attendemmo fino al pomeriggio per vedere quelle immagini. Me le ricordo: Berlinguer che parla in una piazza colma di gente, si appoggia al microfono, sta visibilmente male, beve un bicchiere d’acqua, ma non ce la fa proprio, lo sostengono, lo allontanano dal palco. E’ l’ultima immagine che ho di lui vivo.
Poi il Presidente Pertini che parte per Padova, lo ritraggono nella sala d’attesa dell’ospedale, con la moglie e i figli di Enrico, sono in attesa.
Due giorni dopo la notizia che tutti temevano e che nessuno voleva sentire: Berlinguer era morto, senza più riprendere conoscenza, era morto mentre faceva il suo lavoro, mentre parlava alla gente, alla sua gente, a me, a mio marito, ai nostri compagni della sezione. Era morto come era sempre vissuto, come un uomo vero, come un comunista vero, intelligente e caparbio come la sua Sardegna, come un uomo onesto, pulito. Mi ricordo le parole di Pertini, che lo riportò a Roma sull’aereo presidenziale: “Porto a casa un figlio”.
Non sono riuscita ad andare ai funerali, non ce l’ho fatta a vedere la televisione, non ho mai più riguardato quelle immagini, anche se ho comprato la cassetta al festival dell’Unità. Ce l’ho ancora quella cassetta VHS, che scema, non ho neppure più il videoregistratore. Eppure quella cassetta e i numeri speciali dell’Unità li ho ancora tutti, mi hanno seguita nei miei traslochi della vita.
Quattro giorni dopo, il 15 giugno vincemmo le elezioni, il PCI era il primo partito d’Italia, ma noi, i compagni della sezione non eravamo felici, anche se quella fu la vittoria più bella, dedicata a Enrico, a tutti noi.
Sono passati quasi trent’anni, ho quasi l’età di Berlinguer quando è morto. Ho due figli e a loro racconto, ogni tanto, di quel lontano giorno di giugno, e forse gli occhi luccicano e piange il cuore.