domenica 20 novembre 2011

da Claudio Velardi

A tanti anni di distanza, attribuisco la caduta precoce dei capelli e le violente gastriti dell’epoca al fatto che non stavo bene nei panni di funzionario di partito. Ruolo troppo impegnativo per il mio anarchismo di fondo e per altre significative lacune. Della politica - mi disse una volta Chiaromonte - avevo una visione “sociologica”: l’accusa non mi faceva dormire. Nei confronti dottrinari me la cavavo, ma mi mancava, per esempio, il rigore e la capacità di approfondimento e studio del mio “fratello” Minopoli. Supplivo con la vivacità e la fantasia, che nel Pci erano tollerate, ma sempre entro certi limiti.
Per questo non mi passa di mente quel comitato federale di fine giugno del 1979, dopo le politiche che consegnarono al Pci una pesante sconfitta. Nella fumosissima sala “Mario Alicata” presi la parola tra i primi. Non avevo lo status per parlare nei momenti topici, ma ebbi l’accortezza di non essere quello che “rompeva il ghiaccio”. Così al quinto-sesto intervento, dopo le fisiologiche fughe del dopo relazione, mi ritrovai la sala di nuovo piena. L’intervento l’avevo preparato con molta cura: 6-7 foglietti di appunti fitti, per non dare la sensazione di leggere, ma avere la certezza di non perdere il filo.
La mia tesi l’esposi subito: basta con la solidarietà nazionale, bisogna passare all’alternativa. E non doveva essere un’alternativa di sistema, ma un’alternativa di governo. Non usai la parola “alternanza”, che all’epoca era una parolaccia che manco Craxi aveva il coraggio di pronunciare. Ma insomma il concetto era quello.
Voi che avete vissuto il Pci ricordate il clima magico che i grandi oratori (Ingrao su tutti, ma anche Amendola) creavano nelle nostre assemblee: per ore non volava una mosca, tutti a pendere dalle loro labbra oracolari. Ecco, quella sera vissi uno di questi momenti magnetici e rari: per 10 minuti, non di più, nessuno si mosse, tutti mi ascoltarono senza brusii di sottofondo. Preso progressivamente coraggio, conclusi l’intervento in gloria. L’applauso fu composto, come tutto all’epoca, ma caldo e convinto.
Il punto è che, in un partito già pieno di “sensibilità” - come si chiamavano allora -, vennero da me a congratularsi da destra e da sinistra: Valenzi, fiero amendoliano, mi disse che avevo ragione; Donise, segretario di Federazione e piuttosto di sinistra, addirittura mi chiese gli appunti dell’intervento. Persino Napolitano, nelle conclusioni, mi gratificò di un rimbrotto misurato, e comunque - onore massimo - di una citazione.
Alle due di notte, quando finimmo, ero ovviamente al settimo cielo. Ma il fatto che fossi piaciuto a tutti, seminò un dubbio che mi sarei portato dietro, fino a quando, dieci anni dopo, decisi di lasciare il funzionariato. I capelli ormai non c’erano più. Però, credetemi, da allora non ho più la gastrite.

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