venerdì 25 novembre 2011

da Pompeo Volpe

Mi sono iscritto alla sezione Universitaria del PCI nel dicembre 1973, circa un mese dopo aver iniziato la frequenza dei corsi di Medicina e Chirurgia dell’Università di Padova. L’idea, maturata negli ultimi anni del Liceo, era che i sei anni di università dovessero essere un periodo di preparazione alla professione del medico concepita come servizio al prossimo. Accanto ad un percorso personale di studio ce ne doveva essere uno politico inteso come partecipazione diretta ai processi di trasformazione delle strutture universitarie; la qualità della mia futura professione dipendeva non solo dalla bontà degli studi compiuti ma anche dalla concreta modificazione della Facoltà universitaria all’interno della quale tali studi si svolgevano.

Le motivazioni che mi avevano portato ad aderire al PCI erano sicuramente diverse da quelle di altri compagni. In effetti, al medesimo approdo si giungeva con le più eterogenee motivazioni, tenuto conto della diversità di estrazione sociale, formazione culturale, provenienza geografica dei militanti della sezione Universitaria. Io non ero di estrazione operaia, non avevo un retroterra familiare di sinistra né alcuna precedente esperienza politica, non avevo alcuna passione per la politica in senso lato; eppure sentivo il dovere di fare politica per compiere un percorso universitario completo. Non era passione, era convinzione.

Emblematico, per il mio approccio alla politica in quei primi anni di militanza, fu il lungo dibattito avviato da Giovanni Berlinguer su L’Unità del 14 dicembre 1973 con l’articolo “I medici di domani” incentrato sul profilo dei medici italiani di lì a 5-10 anni. La questione cruciale era relativa alla collocazione della Facoltà di Medicina dentro o fuori dell’Università, ovvero quale fosse la migliore struttura formativa per gli studenti in relazione ai bisogni sanitari del paese in tema di prevenzione, terapia e riabilitazione. La analisi della qualità degli studi era collegata strettamente alla considerazione delle qualità professionali dei medici, e non si sottaceva il problema numerico ovvero il rapporto medico/paziente che nell’arco di 5-10 anni sarebbe sceso a valori di 1/250 contro la media europea di 1 per 600-800 abitanti. Il dibattito (riportato in larga parte nel volume collettivo AAVV, Le Scuole di sanità, 1976, Il Pensiero scientifico Editore) si svolse dapprima sulle pagine de L’Unità, ebbe momenti di discussione interna, sia alle Botteghe Oscure che nella scuola di partito delle Frattocchie, e si concluse con un convegno pubblico tenutosi a Roma (28 e 29 novembre 1975). In quella sede fu presentata e discussa una bozza di legge per l’Istituzione delle Scuole di sanità, una struttura di tipo nuovo per la formazione del personale medico e paramedico, che avrebbe dovuto sostituire la Facoltà di Medicina. La nostra politica non era rivendicativa, protestataria, era propositiva, frutto di riflessione, di studio; non sollecitava la fantasia, cercava di cogliere i problemi fondamentali e di trovare soluzioni di interesse generale - si poneva per esempio, il problema della regolamentazione degli accessi in relazione ai costi ed alla qualità degli studi -; era forse una politica noiosa, ma guardava con fiducia al futuro da costruire.

Negli anni immediatamente successivi, qualcosa modificò il nostro progetto.

Nessun commento:

Posta un commento