lunedì 28 novembre 2011

da Manuele Braghero

Sono nato Torino nel ‘61 e cresciuto nel quartiere operaio di Borgo Vittoria, ho studiato all’Istituto Professionale “Zerboni”. Per quelli della mia classe un passo avanti. Il PCI ha rappresentato per me la voglia di crescere ed emanciparsi come fatto collettivo e non individuale. Nel 1975 ho chiesto la tessera della Federazione Giovanile Comunista Italiana. Niente ideologia o dottrina. Non sono mai stato comunista contro qualcuno. Mi divertivo. Mi piacevano le feste dell’Unità, vivere quella comunità popolare dove discussioni serissime e l’espressione delle nuove tendenze della musica convivevano. Gente di tutte le età, operai che venivano a fare i volontari dopo 8 ore in fabbrica. Un popolo enorme frequentava queste feste, venivano anche il dottore o i figli del padrone della fabbric. Ho imparato “mestieri” volontari: cucinare, gestire uno stand, organizzare il lavoro. Ricordo l’impegno per innalzare la qualità delle scuole operaie: per ottenere la palestra e il diritto ad uno studio più completo. Sono stato il “leader” degli studenti medi delle scuole professionali di Torino. Non di tutti, di quelli “democratici” e comunisti, perché esisteva una solida componente movimentista: Lotta Continua, Avanguardia operaia, democrazia proletaria. Esisteva anche l’“Autonomia” che si muoveva in una fascia grigia tra estremismo politico e terrorismo. Erano anni di forte protagonismo giovanile ma anche di violenza politica. Di giovani morti nelle scorribande notturne dei fascisti e, sul fronte opposto, dei sedicenti compagni. Un gruppo di questi diede fuoco a un bar “di destra”, l’Angelo Azzurro (ma che vuol dire un bar di destra alle 11 del mattino?) un ragazzo si trovava all’interno e morì bruciato. Giovani si sono rovinati la vita, finendo nel terrorismo, facendo danni gravi a sé e ad altri. Poi ricordo la lotta alla droga. Con qualche prete e qualche compagno dell’ARCI ho provato anche io a dare una mano. Ragazzi mi venivano affidati la mattina e ripresi la sera. Dare fiducia e provare a riceverne il mio obiettivo. Mi ricordo la loro giovinezza e la loro voglia di venirne fuori. Chissà come sono ora. So solo che sono la metà: per uno che ne veniva fuori uno ci ricascava e il suo destino era segnato: overdose. Ero da due anni il responsabile dell’organizzazione regionale del Piemonte quando, alla vigilia di natale del ‘83 mi chiamarono da Roma e mi chiesero di andare a fare il “commissario” della Federazione giovanile di Catania. La sera del 5 gennaio ero a Catania a fianco di Claudio e dei ragazzi della redazione dei “I Siciliani” a ricordare suo padre, Pippo Fava, assassinato dalla mafia. Rimasi in Sicilia fino all’estate dell’85 e poche settimane dopo ero a fare il segretario del PCI della Val di Susa. A un funzionario del PCI poteva succedere di mettere 1700 km tra due funzioni politiche “confinanti”. Queste esperienze hanno fatto di me l’uomo che sono ma non guardo indietro. I partigiani, compagni senza fama e uomini come Pajetta, Pecchioli o Comollo, collaboratore di Gramsci all’”Ordine Nuovo” , mi hanno insegnato la forza della determinazione e la fiducia nei giovani, nel futuro. Ho imparato a battermi per la giustizia sociale e la libertà, non per conquistare, sgomitando, qualche strapuntino di potere personale. Questo è quello che ho imparato dagli operai comunisti, che lottavano ma quando erano al lavoro amavano farlo bene, con serietà e perizia. Quelli così per me erano i comunisti italiani e io mi sento ancora uno di loro. Non lo vivo come un limite ma come una libertà. So bene che non erano tutti così, ma è da quelli così che io ho provato ad imparare.

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