lunedì 21 novembre 2011

da Pasquale Trammacco

Ricordo che erano passati solo pochi giorni dai “famosi” fatti dell’Università di Roma, quando, per la prima volta fu impedito al Segretario Generale della CGIL, Luciano Lama, di tenere un comizio nel cortile della Sapienza. L’episodio è “passato alla storia” per le diverse ricostruzioni fatte anche da alcuni protagonisti dell’epoca, risultati poi come aderenti all’organizzazione terroristica, Brigate Rosse. Allora fu il segnale chiaro di un passaggio di fase e del fatto che il PCI ed il sindacato, erano diventati uno degli obiettivi principali della contestazione. Dopo di allora, ogni piazza d’Italia sarebbe stata terreno di scontro. E, per noi, “traditori della rivoluzione” sarebbero stati cazzi.
Le organizzazioni sindacali napoletane avevano organizzato una manifestazione conclusa, dopo il tradizionale corteo da piazza Garibaldi, a piazza Matteotti, con un intervento di Lama. La sproporzione, tra il mare di gente schierata con le organizzazione sindacali e di partito e l’esiguo numero dei contestatori, consentì al corteo di svolgersi senza incidenti di rilievo. Anche l’organizzazione giovanile comunista napoletana partecipava all’evento con i suoi striscioni e le sue bandiere. Uno spezzone bello e numeroso, come accadeva in quegli anni e noi, eravamo lì. Ma l’obiettivo vero della contestazione era il comizio di Lama e, l’intenzione di bissare Roma, fu subito chiara.
Avevo partecipato al corteo con la fgci ed in piazza, ci eravamo messi di lato, nei pressi del palazzo dell’amministrazione provinciale, quando cominciò. All’improvviso, mentre faceva ingresso uno striscione di una organizzazione anarchica, iniziarono le prime violenze.
La gente che prima riempiva il centro della piazza, si portò prontamente di lato ed il servizio d’ordine del sindacato si asserragliò sotto il palco, lasciando campo libero all’assalto. Non mi sembrò una buona idea lasciare tanto spazio a scorribande e al lancio di materiale vario ed ebbi un idea luminosa. Certo chiamarla “idea” è alquanto inappropriato. Fu piuttosto un riflesso condizionato. Sta di fatto che poco prima, all’inizio della giostra, avevo “sequestrato” dalle mani di un compagno quattordicenne e mingherlino, uno “Stalin”, uno di quei bastoni corti e robusti di cui, all’epoca, facevano sfoggio i “servizi d’ordine” delle organizzazioni politiche. Una pessima abitudine fatta più per ostentazione di potenza che per reale efficacia pratica. Comunque, sempre meglio delle chiavi inglesi che costituivano il passaggio successivo nella scala degli armamenti. Gli aggeggi erano utili per lo più ad aumentare le probabilità che una scaramuccia si trasformasse in tragedia. Avevo infatti preso il legno con l’intenzione di evitare guai al ragazzo. Ma fu con quel oggetto in mano che, mentre da sotto lo striscione degli anarchici partiva l’assalto al palco, con i sindacalisti e i militanti del partito arroccati in difesa, io partii a fronteggiare l’assalto. In verità ero convinto di non essere solo e mi sembrava impossibile che dalla folla dei partecipanti non partisse una reazione. E poi c’erano i miei prodi compagni dell’organizzazione giovanile al mio fianco. In realtà mi ritrovai, solo ed inconsapevole di esserlo, per alcuni secondi, (minuti?), a contrastare l’avanzata minacciosa delle orde nemiche. Schivai per poco una bastonata nel primo confronto e, automaticamente misi in azione il mio Stalin.
Il momento concitato durò poco in verità ma dovette essere notevole la vista del guerriero solitario che da solo tentava di fermare l’assalto. In pochi attimi però, partì la reazione ed al mio fianco, non solo arrivarono prontamente i miei compagni dell’organizzazione giovanile, momentaneamente e saggiamente distratti, ma arrivò anche la controffensiva del servizio d’ordine sindacale e soprattutto la reazione di diversi robusti operai di fabbrica che decisero che era il momento di prendere posizione. Per i contestatori finì male. Ricordo bene la faccia insanguinato di un ragazzone barbuto del circolo anarchico di Montesanto, che probabilmente c’entrava poco con gli autonomi, ma che per la sua stazza possente attirò come una calamita una mole considerevole di calci e pugni. A Napoli, lo scherzo insurrezionale contro i traditori quella volta non funzionò.
Nella reazione generale riconquistai, come era gusto, immediatamente l’anonimato ma nella cerchia ristretta dei conoscenti, l’episodico e inconsapevole momento di gloria, rimase. A testimoniarlo ci fu un siparietto dei giorni successivi, quando a scuola mia, gli autonomi diffusero un volantino in cui mi additavano come “mazziere” ed esponente della repressione antiproletaria, mettendomi assieme, nel delirio, con Lama e Berlinguer, cosa che mi diede grande soddisfazione ed orgoglio. Il battesimo in campo mi comportò anche, se è possibile, più dotte e impegnative citazioni, quando incautamente chiesi una sottoscrizione per la fgci a Fabrizia Ramondino, poi ottima scrittrice ed allora insegnante di lingue alla mia scuola. Ex militante del PSIUP, all’epoca simpatizzava per la contestazione anti PCI. Alla mia ingenua richiesta mi redarguì in malo modo dicendomi che ormai eravamo diventati peggio della socialdemocrazia tedesca ai tempi della rivoluzione spartachista.
La mia fama di duro a scuola si accentuò poi anche a seguito di una guerriglia per affissione manifesti sulle mura dell’istituto tecnico per il commercio, Armando Diaz, che allora frequentavo. In campagna elettorale, da militante solerte, avevo portato dalla sezione una decina di manifesti elettorali del partito. Procuratomi un po’ di colla, prima dell’inizio delle lezioni, avevo provveduto ad agghindare l’ingresso della scuola meglio di una sezione del PCI. Questo gesto sembrò però intollerabile per gli aderenti del collettivo autonomo dell’istituto che provvidero subito a coprire i miei manifesti con fogli murali, manco a dirlo, contro la repressione. Indomito, non mi persi di coraggio e, con l’assistenza di altri compagni, ricoprii la parete con i simboli sacri del vecchio PCI. Ne scaturì uno scontro, finito a pugni e a calci per il possesso del muro, a cui parteciparono anche rinforzi esterni prontamente chiamati alla bisogna dalla parte avversa. Forse la mia fama di “pericoloso mazziere” stava facendo effetto. Mentre un amico, però della classe del mio momentaneo avversario, tentava di dividerci, avendo la buona idea di bloccarmi con una presa al collo, io con la classica fortuna che aiuta gli “audaci”, riuscii a far partire un pugno che beccò proprio sul naso uno dei “rinforzi esterni”. Il sangue che colava dalla protuberanza facciale del nemico produsse immediatamente quanto stranamente, una tregua. Ma il segno vero dell’episodio fu dato quanto uno spilungone della mia scuola aderente al collettivo. Tentò di rovesciarmi in testa il secchio con la colla. Doveva essere certo una giornata fortunata (per me), perché, resomi conto dell’intenzioni del mio avversario, diedi una botta potente al secchio, il quale, dopo un paio di giravolte in aria, avvenute senza che si versasse una sola goccia di colla, genialmente si infilò giusto sulla testa al mio avversario. Questo notevole finale ebbe modo di dare il giusto peso alla disputa ma consolidò la mia fama di repressore del proletariato (sic).

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