martedì 29 novembre 2011

da Flavio Martino

“Nato dentro…”

Con autoironia amo spesso parafrasare una canzone di Jannacci “Sa dov’è l’idroscalo? Si, ci son nato dentro…” Nella mia versione diventa “ Si che ho conosciuto il Pci, ci sono nato dentro...!”

In effetti è proprio così.

Sono nato ad Alba il 5 agosto del 1960. La notizia che non sarei stato battezzato e che quei genitori erano dei comunisti che ritenevano che avrei dovuto scegliere io a cosa credere una volta raggiunta l’età della ragione, scatenò le ire di qualche prete che (in nome di cristo misericordioso naturalmente) si affrettò a ricordare nelle messe di quei giorni che ai bambini non battezzati era riservato il fuoco eterno dell’inferno… Beh, grazie dell’augurio: eppoi qualcuno sostiene che sono troppo anticlericale.

Per spiegare meglio come sono “nato dentro” dovrei ricordare i contorni politici del matrimonio dei mie genitori. Primo matrimonio civile nella storia del paese (gente che attendeva davanti alla chiesa e loro in municipio)… e tra i presenti Walter Audisio (allora deputato del Pci) ma conosciuto come il “giustiziere di Mussolini” almeno così recita la storia ufficiale del Partito (chissà se un giorno dal ventre del vecchio partito uscirà la vera verità???). 1956, l’Urss invade l’Ungheria reprimendo ignobilmente il governo di Imre Naghy, colpevole di rivendicare autonomia dai sovietici e maggiore libertà per gli ungheresi. Dal Partito Comunista Italiano (che appoggia la repressione sovietica) escono per protesta (o vengono espulsi) alcuni dirigenti migrando in buona parte nel Partito Socialista. Tra questi il deputato Cuneese Antonio Giolitti (nipote del vecchio liberale) che nel suo migrare verso il Psi viene seguito da quasi tutto il gruppo dirigente provinciale di Cuneo, oltre che da un terzo dell’elettorato. Mio padre faceva il Barbiere a Ceva e gli venne chiesto di chiudere bottega e andare a fare il funzionario a ricostruire il partito in quel di Alba. Per questo sono nato lì, per questo con ironia dico “ci son nato dentro al Pci” quel 5 agosto del 1960, nemmeno un mese dopo i morti del governo Tambroni e forse proprio in quei giorni caldi Fausto Amodei sistemava le note della canzone “Per i morti di Reggio Emilia”.

In questo primo spezzone che comprende i primi vagiti della mia vita (e qui intendo fermarmi) penso sia condensato molto di quello che è stato il Pci. Nel bene e nel male.

Il male è facile indicarlo. Doloroso, senza attenuanti, deflagrante, come il motivo della sua fine. L’Ungheria, la repressione della libertà nei paesi allora definiti “socialisti, dove non i padroni ma i lavoratori erano al potere”. L’Ungheria, nel pieno della destalinizzazione, cioè di una fase di ripensamento e comunque di denuncia degli orrori terribili delle purghe staliniane, dell’ammissione indiretta di un sistema tutt’altro che perfetto. L’Ungheria come prima vittima di un lungo elenco di repressioni sanguinarie compiute nel nome del comunismo e “dell’internazionalismo proletario”. Certo il mondo era diverso, c’era la guerra fredda, Yuri Gagarin andava nello spazio, Fidel Castro vinceva a Cuba contro “l’Imperialismo americano”, iniziava l’epopea del Vietnam. L’Europa unita non esisteva, anzi in Spagna e Portogallo c’era ancora il fascismo di Franco e di Salazar, ma una cosa rimane certa e appare nitidamente come la ragione di una storia che non poteva continuare oltre l’89. Non c’erano e non ci sarebbero più state attenuanti. Difendere quel socialismo realizzato o non rinnegarlo totalmente negli anni successivi avrebbe voluto dire affondare con lui!

Il bene era l’oggettiva diversità del Pci. Quello spirito palpabile nella vita e nei sacrifici di migliaia di dirigenti e militanti. Quel sentirsi parte di una cosa della storia che riscattava l’umanità. Palpabile ai funerali di Togliatti come, ancora di più perché in tempo ormai avanzato, a quelli di Berlinguer. Eravamo tutti li. In tanti fisicamente, tutti col nostro cuore. Ecco, i nostri cuori erano un’attenuante, migliaia di azioni positive che intendevano correggere quelle distorsioni tenendo così accesa una fiamma di speranza. La politica la vivevi col cuore e con la ragione. Riscattare le classi meno abbienti era un dovere morale permanente. Il Pci faceva emergere la parte migliore di noi. La politica di questi tempi fa esattamente l’opposto e chi ricerca ancora quella dimensione, pur con gli occhi e contenuti di questo tempo, viene sconfitto, rimane deluso o diventa marginale.

Tante le domande, tanti i “se” malriposti. Poche le risposte!

Quando ero “giovane e comunista” ho avuto la fortuna di vivere l’esperienza della Fgci degli anni ottanta. Eravamo dentro il Pci ma in modo autonomo. Dissentivamo su molte cose tra cui l’affermare il diritto al dissenso senza che questo dovesse provocare alcuna conseguenza in un partito che si dava regole democratiche. Purtroppo i germogli di quell’esperienza non fecero in tempo a diventare frutti. Gli eventi stravolsero tutto compreso il tentativo riformatore di Gorbaciov che ne fu il motivo scatenante. Dopo, il mondo che ci trovammo davanti pensavamo potesse solo migliorare. A prescindere dalle diverse fortune personali e dai progressi tecnologici, così non è stato.

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