domenica 27 novembre 2011

da Stefano Milani

Mi sono iscritto al PCI nel 1987, avevo 21 anni. Sezione Porto Fluviale, Roma. Erano gli anni in cui il Partito viveva il suo declino, politico ed elettorale, e un giovane che prendeva la tessera era accolto con affetto, entusiasmo e speranza. I maggiorenti della Sezione mi introdussero subito ai riti di un passato che stava per sparire: i volantini “stampati” col ciclostile, il volantinaggio nel quartiere, l’attacchinaggio con secchio e colla, la distribuzione domenicale de L’Unità, casa per casa. Tra compagni era tassativo darsi del “tu”, anche quando un ragazzo come me si trovava a parlare con un anziano. E poi c’erano le Assemblee di Sezione, i Direttivi, le Segreterie, i pomeriggi a parlare di politica, ma anche di sport, donne, vita. La Sezione era “la vita”. Vissi quell’esperienza con una dedizione totale. Come canta Gaber, ho avuto per una breve fase della mia esistenza la sensazione di “appartenere ad una razza che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita”. La razza dei comunisti, quelli che, per dirla con Stalin, sono fatti “di una pasta speciale”. Arrivò, troppo presto, la svolta della Bolognina. I militanti di base erano sconvolti e smarriti. Per dare un segno di rinnovamento il Segretario della Sezione diede a me l’incarico di tenere la relazione introduttiva all’Assemblea che avrebbe dovuto discutere di un passaggio epocale. E allora feci quello che è stato il gesto più surreale della mia vita: io ero un comunista togliattiano e leninista, con un amore irrazionale per l’Unione Sovietica, piuttosto anacronistico per la mia età. Proprio per questo, sentitomi investito dal Segretario del compito di rappresentare la “linea” del Partito, tenni una relazione improntata ad un entusiastico appoggio alla posizione di Occhetto: partii dalla svolta di Lione, per poi passare a quella di Salerno per dimostrare che noi comunisti avevamo sempre saputo adattarci pragmaticamente al mutamento delle condizioni storiche. La svolta della Bolognina si inseriva a pieno titolo in questo percorso, così conclusi. Dopo un paio di interventi, però, chiesi di nuovo la parola, come semplice militante e non come membro della Segreteria. E nel secondo intervento mi scagliai con virulenza contro la svolta, con commoventi richiami all’orgoglio comunista, alla lotta di classe, alla gloriosa Rivoluzione d’Ottobre. Una schizofrenia che oggi mi fa sorridere ma anche vergognare…Arrivò il Congresso della svolta, il XIX, nel 1990. Io aderii alla mozione presentata da Armando Cossutta. Era la mozione che contava sul minor numero di sostenitori (alla fine prese appena il 3%). L’essere in pochi catapultò un ragazzo come me tra le figure di maggior rilievo della mozione. Durante la campagna congressuale ogni giorno venni inviato in una sezione della città e della provincia a sostenere le nostre posizioni. Io ero un ragazzo di 23 anni, e mi trovavo a confrontarmi con i compagni prestigiosi che sostenevano le mozioni di Occhetto e di Ingrao. Un’esperienza irripetibile. Un giorno, in un’assemblea plenaria dei cossuttiani, Armando Cossutta nelle conclusioni richiamò un passaggio del mio intervento, citandomi per nome. Fu un’emozione enorme; per me lui era un mito, e in un contesto improntato all’ortodossia avere il consenso pubblico del leader non era cosa di poco conto. Un anziano compagno volle vedermi riservatamente una mattina per dirmi di stare attento agli invidiosi…Roba da Comintern! Al congresso di Sezione presentai farneticanti emendamenti alla mozione Occhetto che rivendicavano la tradizione comunista, il marxismo leninismo (senza trattino) e la Rivoluzione d’Ottobre. Ebbi un consenso molto superiore alla media nazionale, e fui eletto delegato al Congresso di Federazione. Uno dei miei emendamenti era stato approvato dall’intero Congresso di Sezione, e non solo dai cossuttiani: era quello in cui volevo emendare la frase di Occhetto sulla “democrazia come via per il socialismo” in “non c’è democrazia senza socialismo”. La differenza è evidente, ma forse la maggioranza dei compagni non se ne rese conto. Al congresso di Federazione fu chiamato ad intervenire contro il mio emendamento il grande Mario Tronti, uno dei teorici più lucidi del Partito. Ed anche qui io, giovanissimo, ebbi l’onore di sostenere le mie posizioni dopo di lui, di fronte all’intera assemblea dei delegati. L’emendamento fu naturalmente respinto…Dopo il Congresso, disilluso e deluso, mi allontanai dal Partito e non partecipai al doloroso percorso che portò, nel 1991, allo scioglimento del PCI e alla fuoriuscita di molti compagni, compresi i cossuttiani . Mi distaccai dalla politica attiva, per dedicarmi alla mia vita che avevo tralasciato in nome di un ideale superiore. Ma ancora oggi ricordo con affetto e riconoscenza tutti i compagni che, ormai più di 20 anni fa, mi dimostrarono con atti e parole che esistono uomini “diversi”, e che la politica non è solo perseguimento di un interesse personale. Ancora oggi, quando mi capita di dover esprimere in sintesi come la penso, dico con orgoglio che “sono un uomo del PCI”..

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