martedì 29 novembre 2011

da Fernando Bruno

Mi sono iscritto al PCI nel 1979, a diciannove anni, dopo due anni di segreteria del circolo FGCI. In pratica fui obbligato ad abbandonare di corsa i giovani e ad iscrivermi al partito perché il direttivo di sezione (diceva) aveva bisogno di risorse nuove. Avevo diciannove anni. Un anno più tardi fui eletto segretario. Improvvisamente, a vent’anni, mi venne chiesto di diventare maturo e pensoso, per dirigere la politica del partito in un quartiere di ventimila abitanti. Avevamo il 40% per cento dei voti e controllavamo, come si diceva allora, tutte le organizzazioni di massa presenti ed attive sul territorio: il centro anziani, la polisportiva, il comitato per il verde, la cooperativa di consumo, la consulta scuola. Di ognuno di questi organismi, vissuti e partecipati da decine e decine di cittadine e cittadini, esprimevamo il presidente. Tutti loro erano membri del direttivo della sezione, ed io ero il loro segretario. D’improvviso mi si chiese di diventare esperto di politiche urbanistiche, di politiche per gli anziani, di politiche per la scuola. Poi dovevo incontrare e trattare con le altre rappresentanze dei partiti sul territorio; scrivere di mio pugno ogni testo, manifesto, volantino che usciva dalla sezione; rappresentare il partito nelle occasioni pubbliche; far parte degli organismi cittadini aperti ai segretari di sezione. En passant, in federazione dovevo ogni volta spiegare alla vigilanza che sì, ero lì per l’attivo dei segretari…che no, non ero della fgci…, che sì, ero segretario di sezione. Per un anno e mezzo (il tempo della mia esperienza da segretario, poi scappai via perché volevo studiare…) misi da parte l’università e mandai in malora la mia collezione di tex willer; abbandonai la palestra e il calcio; per i libri e la musica tempo solo il fine settimana e la fidanzata (naturalmente una compagna della sezione…) solo nel breve spazio lasciato libero dalle interminabili riunioni notturne. Eppure mi sentivo normale. Normalissimo. Un pesce nell’acqua. Ed era acqua buona. Piena di ossigeno e di vita. A pensarci oggi, mi sembra impossibile quel disinteresse, quell’entusiasmo, quel sacrificio di sé che consumavamo in allegria trascinandoci da una riunione, ad un’assemblea pubblica, da un attacchinaggio ad un volantinaggio, da un presidio al mercato a una delegazione in circoscrizione. Eppure, io e buona parte di quei miei compagni d’avventura, la gran parte giovani come me, eravamo ironici e felici, certi che ne valesse la pena, mai troppo compresi del ruolo di leaderini in carriera. E poi c’erano i vecchi. Vecchi meravigliosi. Meravigliosamente colti e saggi. Straordinariamente disinteressati. Allegramente poveri. Non tutti i ricordi che ho sono belli, naturalmente, ma conservo vivida memoria di una dimensione umana irripetibile. Stavamo in sezione come a casa. E ovunque ci trovassimo, in italia, sapevamo che bastava trovare la sezione del PCI e saremmo stati a casa. E trovare l’idraulico, il muratore, il meccanico, il carrozzerie, non era un problema. C’era sempre un compagno che diceva, questo posso farlo io…Ovviamente non si stava lì perché ci piaceva farci compagnia o per sfuggire alla solitudine. Anche se fatalmente tutto accadeva là attorno, gli amori, le passioni, le amicizie.. si stava lì perché bisognava cambiare il mondo. Sapevamo tutto di indocina ed america latina. Avevamo opinioni su ogni tema di politica interna e ci sforzavamo di capire persino cosa fosse lo SME e cosa implicasse per le politiche economiche e finanziarie nostrane. Quell’esperienza dentro al PCI non ha cambiato il mondo, meno che meno l’Italia, ma ha certamente cambiato molti di noi che l’anno fatta. A me ha insegnato a sostenere sempre le mie idee con entusiasmo e passione, a non scendere a patti con i miei principi, a sacrificare qualche interesse personale per non cedere a compromessi inaccettabili, a sentirmi vivo e vitale, e fiero di essere stato iscritto al PCI.

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