giovedì 17 novembre 2011

da Umberto Contarello

Sono nella stanza della Federazione dove la mattina leggo i gionali con i compagni funzionari. Sono stato ammesso a questo rito da quando sono responsabile degli studenti medi della fgci e ho anche la tessera del Partito. Ho diciannove e davanti a me ci sono il segretario del partito Franco Longo, il segretario della ffederazione Péietro Folena e Ugo Pecchioli, che ha la faccia gialla, e fuma, come fumano tutti. Mi dicono che non devo avere paura e che devo solo confermare quello che è successo, cioè che mi hanno pestato in mezzo alla strada dopo avermi tirato fuori da un negozio di articoli sanitari dove mi ero nascosto. Devo solo confermare i nomi, non posso dimenticarli, perché li conosco da quando sono nato. Padova è piccola, anche se ha l’Università. Io dico che va bene, del resto è un mese che mi preparo. Pietro mi offre di dormire a casa sua ma io dico di no. Mi accompagnano, no, non mi accompagnano, mi scortano a casa. Il giorno prima alla radio hanno detto il mio indirizzo. Pecchioli si alza ed è alto come un pioppo. Mi dice che il partito mi manda una settimana a Mosca, dopo. Sono felice.
Suonano, sono le otto. Salgo in una macchina e comincio a non capire niente, a non vedere niente. Siamo in cinque e hanno tutti l’età di mio padre. Di qua, di là, a destra, aspetta qui, hai sete? adesso viene Calogero a salutarti. Il tribunale è solo marmo e legno da chiesa. Poi arriva con la toga sotto braccio che mi sembra un cencio. Mi dice ciao perché ci conosciamo. Abbiamo fatto un convegno sull’Autonomia, mentre fuori tiravano sassi e urlavano che eravamo, cioè che anche io ero la nuova polizia. Poi mi dice una cosa che non capisco. “Non è niente”, questo mi dice proprio quando un usciere apre la porta dell’aula e mi arrivano addosso come un colpo di bora, ma sono urla. Longo si siede vicino a me, e c’è anche Pietro, e c’è Flavio Zanonato. A tracolla ho la borsa di Tolfa perché quando andavamo allle manifestazioni nazionali a Roma c’era sempre sole e i compagni belli e sereni di Roma ce le avevano tutti. Me la tieni. Si la tengo io dice Pietro. Poi vengo chiamato che è come dire risucchiato. Non vedo, non capisco, non ho mai avuto così tanta paura, nemmeno quando mi hanno gonfiato di botte. Non li guardo, anzi li guardo, per un attimo, dentro alla gabbia, e li vedo che urlano ma non li sento. Non capisco dove devo sedermi, non posso pensare che sia quella la sedia, perché li avrei tutti di fronte, ma deve essere quella perché c’è un microfono. Tutti gli esseri umani qui dentro, quelli compressi oltre la sbarra del pubblico, loro, sono tutti nemici a me, a “quelli come me” che adesso, qui dentro, non esistiamo.
Alla fine mi siedo e penso a Mosca.

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