mercoledì 30 novembre 2011

da Fabrizio Rondolino

L’anno doveva essere il 1977, l’anno della rivolta giovanile contro il Pci; avevo 17 anni e a Torino ogni corteo finiva male, e noialtri della Fgci finivamo quasi sempre per prenderle. Però bisognava “stare nel movimento”, secondo la linea di allora, e dunque insistevamo caparbi.
Come responsabile della cellula del mio liceo, l’Alfieri, avevo diritto ad una copia della chiave della sezione del partito. Al piano terra della Garibaldi c’era un circolo Arci, dove avevamo l’abitudine di bere frizzantino e consumare quintali di noccioline americane; al primo piano c’era la sala riunioni.
Un pomeriggio salii con Silvia, la mia fidanzata. A quei tempi stare un po’ da soli era sempre un problema: le mamme erano casalinghe e i papà erano severi (quello di Silvia, oltretutto, leggeva il “Giornale” di Montanelli). A volte ci rifugiavamo nell’appartamentino di mia nonna, che d’estate viveva in campagna: anche di quello custodivo una chiave, ottenuta però illegalmente. Il sabato sera s’andava tutti a casa di Marco, dirigente della Fgci, perché i suoi genitori partivano per la montagna; la casa era grande e, ad un certo punto della serata, dal salotto alcuni di noi passavano alle stanze.
Ero insomma nella sala riunioni della mia sezione – libreria con i classici del marxismo, ritratto di Gramsci alla parete, bandiere arrotolate in un angolo, scrivania di legno e sedie di varie fogge, pile di volantini avanzati – insieme alla mia ragazza – bellissima, non iscritta ma simpatizzante, attiva nel Collettivo femminista della nostra scuola – quando sentii la serratura scattare e la porta improvvisamente aprirsi.
Era il segretario di sezione in persona.
Per me, fu come essere sorpreso dal vescovo a mangiare la cioccolata nel tabernacolo. Raramente nella vita ho provato tanta vergogna, tanto imbarazzo, e tanta indegnità. Come potevo disonorare in quel modo una sezione del grande Partito comunista? Silvia era anche più imbarazzata di me, ma aveva il vantaggio di non avere la tessera. Mentre uscivamo più rossi di una bandiera, Paolo, il segretario, mi disse con un tono insieme fraterno e severo che era successa una cosa del tutto normale, ma che era meglio non farla più in sezione.
Passeggiammo per corso Dante fino al Valentino, Silvia ed io, senza scambiarci troppe parole; poi lei prese il tram per tornare a casa. Attraverso il finestrino che s’allontanava la vedevo ridere, e anch’io scoppiai in una risata allegra e definitiva. Ero felice di stare con Silvia, ero felice di stare nel partito.

da Mariuccia Cadenasso

Sono cresciuta in una famiglia di iscritti al PCI. E in una strada, in un caseggiato, di iscritti al PCI. Zona operaia, qualche socialista e tutti PCI. Quando sono andata a scuola ho fatto fatica a capire che il mondo non fosse fatto di comunisti.
Molti dei ricordi della mia infanzia sono legati alle feste dell'Unità, alle serate con le compagne sedute nella mia cucina ad arrotolare biglietti della lotteria su lunghi chiodi e a fermarli con un "anellino" di pasta, di quella da brodo.
Per le elezioni, ho fatto tutta la trafila: staffetta, rappresentante di lista, scrutatrice. E ho frequentato tutti i "gradi" dell'organizzazione: pionieri, FGCI, PCI.
Un unico momento di "sbandamento": il '68... Sono sempre stata un po' ribelle e contigua ai compagni della sinistra extraparlamentare con cui avevo vissuto quel momento, ma il Partito era il Partito.
E al Partito devo tutto. Nel Partito ho imparato a scrivere a macchina e a usare il ciclostile. Nel partito ho imparato a parlare con davanti un pubblico. Il Partito mi ha stimolato a imparare lingue straniere, perché alle Feste dell'Unità o di Nuova Generazione c'erano le delegazioni estere con cui confrontarsi. Nel Partito ho imparato il rispetto per gli anziani, portatori di esperienze e di valori. Ma ho imparato anche a non avere soggezione: il tu si dava a tutti, giovani e vecchi, senatori e operai., militanti e sindaci. Tutti uguali.
Incontrare per lavoro Fassino a un convegno quando era Ministro degli esteri e dargli del tu e non provare la minima soggezione. Essere ricevuta da Pertini con un gruppo di studenti quando era Presidente della Camera e chiamarlo "compagno". Molto rispetto, ma nessuna riverenza.
Nel Partito sono diventata una persona, ho acquisito valore e valori, ho imparato cose che mi sono servite anche nella vita di tutti i giorni.
E le Feste dell'Unità.... per me sono state i pranzi di Natale in cui una famiglia, una grande famiglia, la mia grande famiglia allargata, si riuniva e viveva insieme i giorni della festa.

da Nicola Calcagno

Studiavo a Ferrara ,1961,entrai nella Federazione PCI,storica sede in via Ariosto.Un amico mi aveva invitato a catalogare con altri giovani materiale da donare agli algerini.Trovai molti ragazzi che raccoglievano e smistavano medicinali da inviare ai ribelli in Algeria.Rimasi con loro,dopo qualche giorno mi tesserai alla FGCI.Nel 1964 presi la tessera del PCI.Grande partito.Grandi personalita'si confrontavano,grandi eventi in quegli anni...Papa Giovanni,la Pacem in Terris,Kruscev e Kennedy,il blocco a Cuba,Guevara.....grandi ideali....Campagne elettorali...Cammina coi tempi,cammina con noi.Dirigente della FGCI ferrarese,candidato UGI...poi il trasferimento in Basilicata,il partito contadino,i braccianti morti durante l'occupazione delle terre...l'esperienza di consigliere regionale nella regione di Nitti e Fortunato.La Basilicata di Amendola,Chiaromonte,Napolitano,Ranieri e Velardi.....Schettini e Di Siena. Grande esperienza,grande scuola,non ho nulla di cui pentirmi....Il rimpianto?Certo per le cose che non si ripetono.Nessuno per un grande partito che pero' avrebbe dovuto svoltare 10 anni prima....che non ha voluto o saputo camminare fino in fondo coi tempi.

da Sergio Duretti

Ho tre flash molto nitidi del mio rapporto con i comunisti e con il
Partito Comunista.
Il primo è di fine anni settanta. Ero già grande - ovvero maggiorenne
- ma a scuola ero stato quello che si dice un "cane sciolto" in un
Liceo in cui non c'era praticamente la FGCI e dominava ciò che
rimaneva di Lotta Continua.
Mi ero impegnato senza etichette ma in quella zona grigia tra
università e lavoro - che sarebbe iniziato dopo pochi mesi - decisi
una sera di varcare la porta di una sezione del PCI.
Stava a meno di 300 metri da casa mia e mi ricordo che quando entrai
vide un moto tra la sorpresa e la curiosità che uno sbarbatello
arrivasse così.
Il bello del "grande partito comunista" era che trovarlo era facile.
Io che vivevo in una città della periferia torinese diventata grande
per le fabbriche e per dare una casa agli operai lo potevo trovare
ovunque. Altro che una sezione ogni campanile. Lì le sezioni erano
almeno il doppio se non il triplo dei campanili.
Mi ricordo che partecipai quella sera a una riunione sul Piano
regolatore generale - allora era un tema caldissimo - e per quanto ne
capissi poco o nulla, avvertii che chi c'era non si ponava problemi
circa la presenza di uno mai visto. Fu l'inizio di un percorso che
dopo 5 anni mi portò fare il consigliere comunale ma questa è un'altra
storia.
Il secondo flash è di metà degli anni ottanta e mi permette di (far)
comprendere meglio cosa significava essere comunisti. La cosa
raccontata oggi è anche divertente ma al tempo fu tragica. In sostanza
comunico a mio padre - che così indirettamente ricordo - che ho deciso
di lasciare la mia storica fidanzata del liceo. Lui che si era fatto
chissà quali idee su unioni e prossimi nipotini - ndr per inciso avevo
23 anni - commenta furibondo la cosa lanciandomi l'anatema per lui più
tremendo: "da questo momento non potrai più dirti comunista". Io cerco
di spiegargli che cosa cavolo c'entra una scelta personale con
l'essere o meno comunisti ma lui è irremovibile. A lui togliattiano e
poi berlingueriano di ferro anche soltanto il venir meno a un
"fidanzamento" suona come una tremenda colpa. Non mi ha parlato per
una settimana e poi se ne è fatto una ragione, ma la dice lunga sui
comunisti diventati tali dopo la Resistenza e forgiatisi negli anni 50
e 60.
Il terzo flash è di fine anni ottanta. Per quelle strane combinazioni
che ti riserva la vita approdo a Botteghe Oscure - anche se
l'indirizzo della FGCI era via Ara Coeli - nella nuova FGCI nata dopo
il Congresso di Napoli del 1985. Sono anni belli che cambiano
profondamente il mio modo di vedere le cose. E' l'incontro con persone
e lingue nuove - io che arrivo dalla città industriale per antonomasia
-, è la scoperta del Sud e delle sue meravigliose persone, è il
tentativo di costruire nuovi ponti tra diverse culture che per me
trova la massima espressione (incompiuta) nella realizzazione della
Rete delle coerenze operose - titolo del Congresso dei Circoli
territoriali del 1990 - che a inizio anni 90 prova a tessere un nuovo
rapporto tra la politica e la società di chi opera nel volontariato,
vicino a vecchie e nuove povertà. Ma è anche l'esperienza che mi fa
comprendere perfettamente che desidero tornare a fare un lavoro nella
società aggiornando quello che ho lasciato appena 3 anni prima, che
desidero continuare a occuparmi di ciò che mi circonda e che lo posso
e lo voglio fare proprio perché l'esperienza che ho avuto la
possibilità di fare e a cui ho dato tanto - in tempo, in passione - mi
ha restituito tanto e ha fatto di me una persona che si sente
migliore.

martedì 29 novembre 2011

da Fernando Bruno

Mi sono iscritto al PCI nel 1979, a diciannove anni, dopo due anni di segreteria del circolo FGCI. In pratica fui obbligato ad abbandonare di corsa i giovani e ad iscrivermi al partito perché il direttivo di sezione (diceva) aveva bisogno di risorse nuove. Avevo diciannove anni. Un anno più tardi fui eletto segretario. Improvvisamente, a vent’anni, mi venne chiesto di diventare maturo e pensoso, per dirigere la politica del partito in un quartiere di ventimila abitanti. Avevamo il 40% per cento dei voti e controllavamo, come si diceva allora, tutte le organizzazioni di massa presenti ed attive sul territorio: il centro anziani, la polisportiva, il comitato per il verde, la cooperativa di consumo, la consulta scuola. Di ognuno di questi organismi, vissuti e partecipati da decine e decine di cittadine e cittadini, esprimevamo il presidente. Tutti loro erano membri del direttivo della sezione, ed io ero il loro segretario. D’improvviso mi si chiese di diventare esperto di politiche urbanistiche, di politiche per gli anziani, di politiche per la scuola. Poi dovevo incontrare e trattare con le altre rappresentanze dei partiti sul territorio; scrivere di mio pugno ogni testo, manifesto, volantino che usciva dalla sezione; rappresentare il partito nelle occasioni pubbliche; far parte degli organismi cittadini aperti ai segretari di sezione. En passant, in federazione dovevo ogni volta spiegare alla vigilanza che sì, ero lì per l’attivo dei segretari…che no, non ero della fgci…, che sì, ero segretario di sezione. Per un anno e mezzo (il tempo della mia esperienza da segretario, poi scappai via perché volevo studiare…) misi da parte l’università e mandai in malora la mia collezione di tex willer; abbandonai la palestra e il calcio; per i libri e la musica tempo solo il fine settimana e la fidanzata (naturalmente una compagna della sezione…) solo nel breve spazio lasciato libero dalle interminabili riunioni notturne. Eppure mi sentivo normale. Normalissimo. Un pesce nell’acqua. Ed era acqua buona. Piena di ossigeno e di vita. A pensarci oggi, mi sembra impossibile quel disinteresse, quell’entusiasmo, quel sacrificio di sé che consumavamo in allegria trascinandoci da una riunione, ad un’assemblea pubblica, da un attacchinaggio ad un volantinaggio, da un presidio al mercato a una delegazione in circoscrizione. Eppure, io e buona parte di quei miei compagni d’avventura, la gran parte giovani come me, eravamo ironici e felici, certi che ne valesse la pena, mai troppo compresi del ruolo di leaderini in carriera. E poi c’erano i vecchi. Vecchi meravigliosi. Meravigliosamente colti e saggi. Straordinariamente disinteressati. Allegramente poveri. Non tutti i ricordi che ho sono belli, naturalmente, ma conservo vivida memoria di una dimensione umana irripetibile. Stavamo in sezione come a casa. E ovunque ci trovassimo, in italia, sapevamo che bastava trovare la sezione del PCI e saremmo stati a casa. E trovare l’idraulico, il muratore, il meccanico, il carrozzerie, non era un problema. C’era sempre un compagno che diceva, questo posso farlo io…Ovviamente non si stava lì perché ci piaceva farci compagnia o per sfuggire alla solitudine. Anche se fatalmente tutto accadeva là attorno, gli amori, le passioni, le amicizie.. si stava lì perché bisognava cambiare il mondo. Sapevamo tutto di indocina ed america latina. Avevamo opinioni su ogni tema di politica interna e ci sforzavamo di capire persino cosa fosse lo SME e cosa implicasse per le politiche economiche e finanziarie nostrane. Quell’esperienza dentro al PCI non ha cambiato il mondo, meno che meno l’Italia, ma ha certamente cambiato molti di noi che l’anno fatta. A me ha insegnato a sostenere sempre le mie idee con entusiasmo e passione, a non scendere a patti con i miei principi, a sacrificare qualche interesse personale per non cedere a compromessi inaccettabili, a sentirmi vivo e vitale, e fiero di essere stato iscritto al PCI.

da Flavio Martino

“Nato dentro…”

Con autoironia amo spesso parafrasare una canzone di Jannacci “Sa dov’è l’idroscalo? Si, ci son nato dentro…” Nella mia versione diventa “ Si che ho conosciuto il Pci, ci sono nato dentro...!”

In effetti è proprio così.

Sono nato ad Alba il 5 agosto del 1960. La notizia che non sarei stato battezzato e che quei genitori erano dei comunisti che ritenevano che avrei dovuto scegliere io a cosa credere una volta raggiunta l’età della ragione, scatenò le ire di qualche prete che (in nome di cristo misericordioso naturalmente) si affrettò a ricordare nelle messe di quei giorni che ai bambini non battezzati era riservato il fuoco eterno dell’inferno… Beh, grazie dell’augurio: eppoi qualcuno sostiene che sono troppo anticlericale.

Per spiegare meglio come sono “nato dentro” dovrei ricordare i contorni politici del matrimonio dei mie genitori. Primo matrimonio civile nella storia del paese (gente che attendeva davanti alla chiesa e loro in municipio)… e tra i presenti Walter Audisio (allora deputato del Pci) ma conosciuto come il “giustiziere di Mussolini” almeno così recita la storia ufficiale del Partito (chissà se un giorno dal ventre del vecchio partito uscirà la vera verità???). 1956, l’Urss invade l’Ungheria reprimendo ignobilmente il governo di Imre Naghy, colpevole di rivendicare autonomia dai sovietici e maggiore libertà per gli ungheresi. Dal Partito Comunista Italiano (che appoggia la repressione sovietica) escono per protesta (o vengono espulsi) alcuni dirigenti migrando in buona parte nel Partito Socialista. Tra questi il deputato Cuneese Antonio Giolitti (nipote del vecchio liberale) che nel suo migrare verso il Psi viene seguito da quasi tutto il gruppo dirigente provinciale di Cuneo, oltre che da un terzo dell’elettorato. Mio padre faceva il Barbiere a Ceva e gli venne chiesto di chiudere bottega e andare a fare il funzionario a ricostruire il partito in quel di Alba. Per questo sono nato lì, per questo con ironia dico “ci son nato dentro al Pci” quel 5 agosto del 1960, nemmeno un mese dopo i morti del governo Tambroni e forse proprio in quei giorni caldi Fausto Amodei sistemava le note della canzone “Per i morti di Reggio Emilia”.

In questo primo spezzone che comprende i primi vagiti della mia vita (e qui intendo fermarmi) penso sia condensato molto di quello che è stato il Pci. Nel bene e nel male.

Il male è facile indicarlo. Doloroso, senza attenuanti, deflagrante, come il motivo della sua fine. L’Ungheria, la repressione della libertà nei paesi allora definiti “socialisti, dove non i padroni ma i lavoratori erano al potere”. L’Ungheria, nel pieno della destalinizzazione, cioè di una fase di ripensamento e comunque di denuncia degli orrori terribili delle purghe staliniane, dell’ammissione indiretta di un sistema tutt’altro che perfetto. L’Ungheria come prima vittima di un lungo elenco di repressioni sanguinarie compiute nel nome del comunismo e “dell’internazionalismo proletario”. Certo il mondo era diverso, c’era la guerra fredda, Yuri Gagarin andava nello spazio, Fidel Castro vinceva a Cuba contro “l’Imperialismo americano”, iniziava l’epopea del Vietnam. L’Europa unita non esisteva, anzi in Spagna e Portogallo c’era ancora il fascismo di Franco e di Salazar, ma una cosa rimane certa e appare nitidamente come la ragione di una storia che non poteva continuare oltre l’89. Non c’erano e non ci sarebbero più state attenuanti. Difendere quel socialismo realizzato o non rinnegarlo totalmente negli anni successivi avrebbe voluto dire affondare con lui!

Il bene era l’oggettiva diversità del Pci. Quello spirito palpabile nella vita e nei sacrifici di migliaia di dirigenti e militanti. Quel sentirsi parte di una cosa della storia che riscattava l’umanità. Palpabile ai funerali di Togliatti come, ancora di più perché in tempo ormai avanzato, a quelli di Berlinguer. Eravamo tutti li. In tanti fisicamente, tutti col nostro cuore. Ecco, i nostri cuori erano un’attenuante, migliaia di azioni positive che intendevano correggere quelle distorsioni tenendo così accesa una fiamma di speranza. La politica la vivevi col cuore e con la ragione. Riscattare le classi meno abbienti era un dovere morale permanente. Il Pci faceva emergere la parte migliore di noi. La politica di questi tempi fa esattamente l’opposto e chi ricerca ancora quella dimensione, pur con gli occhi e contenuti di questo tempo, viene sconfitto, rimane deluso o diventa marginale.

Tante le domande, tanti i “se” malriposti. Poche le risposte!

Quando ero “giovane e comunista” ho avuto la fortuna di vivere l’esperienza della Fgci degli anni ottanta. Eravamo dentro il Pci ma in modo autonomo. Dissentivamo su molte cose tra cui l’affermare il diritto al dissenso senza che questo dovesse provocare alcuna conseguenza in un partito che si dava regole democratiche. Purtroppo i germogli di quell’esperienza non fecero in tempo a diventare frutti. Gli eventi stravolsero tutto compreso il tentativo riformatore di Gorbaciov che ne fu il motivo scatenante. Dopo, il mondo che ci trovammo davanti pensavamo potesse solo migliorare. A prescindere dalle diverse fortune personali e dai progressi tecnologici, così non è stato.

da Osvaldo Cammarota

Accadde in Via Pigna a Napoli, il 10 maggio del 1983, a me e ad altri Assessori della Giunta Valenzi, tra i quali Andrea Geremicca, all'epoca anche Deputato del PCI. Per i dettagli rinvio alla stampa dell'epoca. "Come ai tempi di Scelba" titolò, tra gli altri, l'Unità. Eravamo al servizio dello Stato e vicini ai senzatetto. Fu forse questa la colpa che ci colpì?

Eravamo un braccio dello Stato per fronteggiare un'emergenza causata dal terremoto del 1980 in un contesto a dir poco inquietante: 35.000 famiglie sgomberate dai loro alloggi (quasi tutte povere e numerose); le Brigate Rosse puntavano sul disagio popolare per seguire le loro strategie "rivoluzionarie"; noi nel mirino delle BR, come altri politici e amministratori già feriti o uccisi; un'intera città sull'orlo del collasso. Uno Stato impreparato a fronteggiare simili disastri ci autorizzò a requisire temporaneamente gli alloggi sfitti. Noi lo facemmo, a vantaggio di chi aveva perso tutto. Il governo dell'epoca, attraverso Zamberletti, riconobbe che se non ci fosse stato il PCI al governo della città, a Napoli ci sarebbe stata la rivolta.
Nel frattempo però, un altro braccio dello Stato ritenne di eseguire con violenza una sentenza di sfratto degli alloggi requisiti e occupati dai terremotati. La sentenza fu emessa da un giudice che, evidentemente, non era informato dei fatti o era reso cieco e sordo dalla potenza del ricorrente.
Che dovevamo fare? Noi ci mettemmo in mezzo, per cercare di spiegare la situazione e ricercare soluzioni più praticabili. Nulla da fare. Gli apparati esecutivi della Polizia ebbero la mano pesante, la carica travolse persino i loro colleghi della Digos, in borghese incaricati di proteggerci dalle BR.

Questo "mettersi in mezzo" -persino fisicamente- era uno dei tratti che faceva del PCI un Partito moderno e Costituente della società italiana. Seppur con tanti limiti e contraddizioni interne, il PCI esprimeva la sua vocazione di governo nel tentare di risolvere le contraddizioni della società.
Si comprenderà che, all'epoca 28enne, cominciai a nutrire qualche dubbio sulla unitarietà dello Stato, sulla uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.... ma eravamo convinti -e per quanto mi riguarda lo sono ancora- che la ragion d'essere di un Partito è proprio quella di risolvere le contraddizioni e i conflitti sociali, non certo di riprodurli al suo interno.

L'unica soddisfazione l'ho avuta 12 anni dopo, quando un mio collaboratore, apprezzando come svolgo il mio attuale mestiere di Operatore di Sviluppo Territoriale mi confessò: "Osvà, eppure io ero uno di quelli che ti doveva sparare ...". Ma questa è un'altra storia. Il PCI già non c'era più.

lunedì 28 novembre 2011

da Roberta Filippini

Ricordi minimi del 1978. Ero una "comunista con la valigia", mandata a Benevento (per dar prova di capacitá in vista di successivi incarichi, ma allora non lo sapevo). C'era un turno di amministrative, dovevo chiudere la campagna elettorale a San Leucio del Sannio, piccolo comune vicino Ceppaloni, nel feudo di Mastella: in piazza erano stati eretti due palchi e lui se ne stava tronfio e sicuro su quello della lista di destra, insieme con un senatore missino, non ricordo il nome. Io ero sul palco di fronte, lista unitaria di centro-sinistra molto allargata: era stata imposta dai giovani della sezione, io ero lì per sostenerli. Parlò il senatore, grandi parole, parlò Mastella, grandi applausi. Poi la gente si voltò verso di noi, scettica: che ci faceva quella ragazza là sopra? Vedevo qualche bellimbusto ridacchiare, capivo che tutti aspettavano di assistere allo spettacolo della nostra umiliazione. Invece il giovane compagno fu bravissimo e anche io: mi sentivo Davide contro Golia, attaccai i notabili con ironia (genere orazione per giulio cesare...ma Bruto è un uomo d'onore). Insomma, ve la faccio breve, vincemmo perfino. Mastella fu sconfitto per la prima volta, a casa sua. Chi avrebbe mai previsto allora il suo successivo percorso politico!
Stessa campagna elettorale, sempre nel Sannio. Per il comizio mi portarono a casa di un compagno che abitava sulla piazza: avevano messo la bandiera sul balconcino della camera da letto, dovevo parlare da lì. Era sera, ero stanca, chiesi di poter andare prima in bagno, mi indicarono un pitale vicino al letto e tirarono una tenda. Feci la mia prima pipì comunista.
Il 1978 fu comunque un anno durissimo. Il rapimento di Moro, la democrazia in pericolo, bisognava orientare subito tutto il partito (qualcuno nel Pci aveva perfino festeggiato la notizia di via Fani): partì subito una campagna di assemblee e comizi, a tappeto. Una domenica ventosa di marzo io dovevo parlare a una piazza semideserta di non ricordo quale paese. Ad ascoltarmi era venuta una mia amica, intellettuale snob di sinistra, che voleva mostrare a un professore francese suo ospite come erano affascinanti le zone interne della Campania e come era liberal il nostro grande Pci, a differenza del loro settario Pcf. Feci il mio discorso a quattro gatti, con il maggior entusiasmo possibile. Attaccarono la musica di chiusura del comizio, ma con grande stupore mi accorsi subito che si trattava di "Addio Lugano bella, o dolce terra mia, cacciati senza colpa gli anarchici van via". Scoppiai a ridere. Il Pci era anche questo.

da Manuele Braghero

Sono nato Torino nel ‘61 e cresciuto nel quartiere operaio di Borgo Vittoria, ho studiato all’Istituto Professionale “Zerboni”. Per quelli della mia classe un passo avanti. Il PCI ha rappresentato per me la voglia di crescere ed emanciparsi come fatto collettivo e non individuale. Nel 1975 ho chiesto la tessera della Federazione Giovanile Comunista Italiana. Niente ideologia o dottrina. Non sono mai stato comunista contro qualcuno. Mi divertivo. Mi piacevano le feste dell’Unità, vivere quella comunità popolare dove discussioni serissime e l’espressione delle nuove tendenze della musica convivevano. Gente di tutte le età, operai che venivano a fare i volontari dopo 8 ore in fabbrica. Un popolo enorme frequentava queste feste, venivano anche il dottore o i figli del padrone della fabbric. Ho imparato “mestieri” volontari: cucinare, gestire uno stand, organizzare il lavoro. Ricordo l’impegno per innalzare la qualità delle scuole operaie: per ottenere la palestra e il diritto ad uno studio più completo. Sono stato il “leader” degli studenti medi delle scuole professionali di Torino. Non di tutti, di quelli “democratici” e comunisti, perché esisteva una solida componente movimentista: Lotta Continua, Avanguardia operaia, democrazia proletaria. Esisteva anche l’“Autonomia” che si muoveva in una fascia grigia tra estremismo politico e terrorismo. Erano anni di forte protagonismo giovanile ma anche di violenza politica. Di giovani morti nelle scorribande notturne dei fascisti e, sul fronte opposto, dei sedicenti compagni. Un gruppo di questi diede fuoco a un bar “di destra”, l’Angelo Azzurro (ma che vuol dire un bar di destra alle 11 del mattino?) un ragazzo si trovava all’interno e morì bruciato. Giovani si sono rovinati la vita, finendo nel terrorismo, facendo danni gravi a sé e ad altri. Poi ricordo la lotta alla droga. Con qualche prete e qualche compagno dell’ARCI ho provato anche io a dare una mano. Ragazzi mi venivano affidati la mattina e ripresi la sera. Dare fiducia e provare a riceverne il mio obiettivo. Mi ricordo la loro giovinezza e la loro voglia di venirne fuori. Chissà come sono ora. So solo che sono la metà: per uno che ne veniva fuori uno ci ricascava e il suo destino era segnato: overdose. Ero da due anni il responsabile dell’organizzazione regionale del Piemonte quando, alla vigilia di natale del ‘83 mi chiamarono da Roma e mi chiesero di andare a fare il “commissario” della Federazione giovanile di Catania. La sera del 5 gennaio ero a Catania a fianco di Claudio e dei ragazzi della redazione dei “I Siciliani” a ricordare suo padre, Pippo Fava, assassinato dalla mafia. Rimasi in Sicilia fino all’estate dell’85 e poche settimane dopo ero a fare il segretario del PCI della Val di Susa. A un funzionario del PCI poteva succedere di mettere 1700 km tra due funzioni politiche “confinanti”. Queste esperienze hanno fatto di me l’uomo che sono ma non guardo indietro. I partigiani, compagni senza fama e uomini come Pajetta, Pecchioli o Comollo, collaboratore di Gramsci all’”Ordine Nuovo” , mi hanno insegnato la forza della determinazione e la fiducia nei giovani, nel futuro. Ho imparato a battermi per la giustizia sociale e la libertà, non per conquistare, sgomitando, qualche strapuntino di potere personale. Questo è quello che ho imparato dagli operai comunisti, che lottavano ma quando erano al lavoro amavano farlo bene, con serietà e perizia. Quelli così per me erano i comunisti italiani e io mi sento ancora uno di loro. Non lo vivo come un limite ma come una libertà. So bene che non erano tutti così, ma è da quelli così che io ho provato ad imparare.

domenica 27 novembre 2011

da Giuliana Trucco

"E' la figlia di Chichin, come non lo conosci? Si, e' quel comunista, ma e' una brava persona."
Quanto mi rimaneva nelle orecchie quel "ma", ero piccola e non sapevo darmi una spiegaazione,
Era vero mio papa' e stato un comunista e un sindacalista sino al midollo e bastava parlare con lui perche' con orgoglio si definisse "comunista": Lo aveva fatto anche con mamma cresciuta con le suore e con una educazione che i "comunisti mangiavano i bambini"
Ricordo che ogni domenica era la stessa storia, lui che andava a vendere porta a porta l'Unita' e qualche copia la regalava e arrivato a casa dovevva far quadrare i conti anche con mamma.
Ricordo che quando ho fatto la prima comunione mi ha speigato che non sarebbe venuto in chiesa perche' non credente e non le sembrava giusto essere li' solo per la mia festa
Ricordo quando e' stato contento quando ha visto la mia prima tessera del PCI
Ricordo la sezione con appeso un quadro di Stalin e la bandiera, dal colore sbiadito, perche' tenuta nascosta in una damigiana in tempo di guerra.
Ricordo che i compagni della sezione che avevano incarichi politici davano una parte dei loro compensi al partito , ma le tasse erano a carico loro....
Ricordo che quando papa' e' morto era da poco in pensione ma la ditta SASSO ha chiuso la fabbrica per dar modo agli operai di partecipare al funerale dove quella bandiera ha sventolato per lui l'ultima volta.

da Lino Vitiello

Potrei raccontare di quando appena ventunenne tenni il mio primo comizio
elettorale da segretario del circolo della FGCI di Ercolano il 4 giugno 1989.
Quella notte l’ esercito cinese aveva assaltato e fatto strage dei tanti
studenti ed operai che occupavano P.za Tien An Men. C’ erano le elezioni
europee i militanti erano accorsi a centinaia per ascoltare i due oratori,
Giorgio Napolitano ed io. Quando ci ripenso, le mie gambe ritornano a tremare.
Lo rincontrai anni dopo, era diventato Presidente della Camera, previsto un
incontro con il Consiglio Comunale del quale facevo parte, mi avvicinai, e poco
istituzionalmente, dandogli del tu, gli ricordai orgoglioso di aver tenuto il
mio primo comizio con lui. Mi guardò e con un sorriso mi disse : però, come sei
invecchiato… Capii che l’ impegno politico ti fa invecchiare precocemente.
Tenni il secondo qualche giorno dopo, ancora due oratori, io e una sempre
bellissima Luciana Castellina, ricordo ancora quando accompagnandola a casa
con la mia Fiat 127, un vigile ci fermò all’uscita della tangenziale di
Fuorigrotta, ero passato con il rosso. Il vigile nel chiedermi i documenti
riconobbe la Castellina, e nel salutarla dimenticò di verbalizzarmi. Mi resto
il dubbio se il vigile fosse stato colpito dalla bellezza della Castellina o
dall’ ammirevolissima personalità politica. Il vigile non si chiamava Silvio, e
quindi doveva essere vera la seconda delle due ipotesi.
Ma nel mio personalissimo album dei ricordi, quelli più piacevoli sono legati
alle tante compagne “conosciute” nel mia militanza di figiciotto, (ricordate?
il figiciotto con una ne fa otto) Berlusconi a confronto era “na pippa”. A lei,
a Barbara A. di Ostuni, maestra inconsapevole della mia prima esperienza. Era
l’ estate del 1987, Festa Nazionale della FGCI a Ravenna, sulla spiaggia, dopo
canti e balli intorno al falò, il nostro primo “incontro”. Non l’ho più rivista
e non l’ho mai più dimenticata, e solo oggi ho capito che aveva ragione il
Grande Giorgio, sono proprio invecchiato. Ma quanto è bello invecchiare sapendo
che un tempo sei stato iscritto al PCI.

da Irene Gironi Carnevale

Sono stata iscritta al PCI…

…veramente sono stata iscritta prima alla FGCI , al circolo della gloriosa sezione “CHE GUEVARA” di Via Luca Giordano a Napoli. La mia prima tessera FGCI datata 1975 me la fece Maurizio Vinci, allora segretario di circolo. Era per me un periodo intenso e particolare e la sezione diventò la mia casa, nel senso più letterale della parola! Amici, amori, passioni, discussioni, incazzature. E poi il volantinaggio, l’attacchinaggio dove ci fronteggiavamo con i fascisti del quartiere, le campagne elettorali, gli attivi, le manifestazioni. Per la mia generazione è stato un modo per crescere provando un senso di appartenenza che i nostri figli ignorano. La condivisione di fatti che facevano la storia del nostro Paese, di cui al momento ignoravamo la portata, ci faceva sentire partecipi di un presente che volevamo, dovevamo cambiare.
Venivo da una famiglia borghese, padre militare, madre casalinga, a casa zero politica. Mi sono costruita la mia identità politica sui banchi di scuola e in sezione, faticosamente, facendo domande e cercando risposte, invidiando per anni chi aveva un padre operaio o sindacalista, chi viveva la politica , la respirava. In quegli anni ho maturato la convinzione che la politica fa parte della nostra vita inevitabilmente, il solo avere un’opinione ed esprimerla è politica ed è giusto portare avanti le proprie idee a qualunque costo. A distanza di tanti anni ancora mi incazzo quando sento affermazioni qualunquistiche del tipo:”Io non mi occupo di politica”. Sono stati anni intensi, indimenticabili di cui non è semplice parlare in due parole per la complessità delle emozioni che ancora mi suscitano. Sono stati anni dai quali è stato difficile staccarsi, proiettati in una nuova realtà dove tanti di noi si sono sentiti, e forse ancora si sentono, orfani o comunque non hanno trovato riscontro in un nuovo assetto che sentivano estraneo. Non è facile fare i conti con il tempo, non è semplice accettare i cambiamenti. Quello che posso dire è che se oggi sono quella che sono, una donna che ha affrontato e affronta le sfide della vita senza piegarsi, senza fare sconti, senza sottrarsi alle responsabilità lo devo anche a quegli anni, a quella scelta, forse la prima vera scelta interamente mia che ancora mi porto dentro. I compagni di allora li ricordo tutti, molti li sento e li vedo ancora, alcuni hanno subito strane metamorfosi ideologiche, altri sono rimasti uguali, ma quando ripenso a quegli anni l’immagine che prepotentemente prende la scena è quella di una stanza della sezione Che Guevara dove noi, intorno all’unico che sapeva suonare la chitarra, cantiamo “La locomotiva” di Francesco Guccini. E vi garantisco che un ricordo del genere non è poco!

da Stefano Milani

Mi sono iscritto al PCI nel 1987, avevo 21 anni. Sezione Porto Fluviale, Roma. Erano gli anni in cui il Partito viveva il suo declino, politico ed elettorale, e un giovane che prendeva la tessera era accolto con affetto, entusiasmo e speranza. I maggiorenti della Sezione mi introdussero subito ai riti di un passato che stava per sparire: i volantini “stampati” col ciclostile, il volantinaggio nel quartiere, l’attacchinaggio con secchio e colla, la distribuzione domenicale de L’Unità, casa per casa. Tra compagni era tassativo darsi del “tu”, anche quando un ragazzo come me si trovava a parlare con un anziano. E poi c’erano le Assemblee di Sezione, i Direttivi, le Segreterie, i pomeriggi a parlare di politica, ma anche di sport, donne, vita. La Sezione era “la vita”. Vissi quell’esperienza con una dedizione totale. Come canta Gaber, ho avuto per una breve fase della mia esistenza la sensazione di “appartenere ad una razza che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita”. La razza dei comunisti, quelli che, per dirla con Stalin, sono fatti “di una pasta speciale”. Arrivò, troppo presto, la svolta della Bolognina. I militanti di base erano sconvolti e smarriti. Per dare un segno di rinnovamento il Segretario della Sezione diede a me l’incarico di tenere la relazione introduttiva all’Assemblea che avrebbe dovuto discutere di un passaggio epocale. E allora feci quello che è stato il gesto più surreale della mia vita: io ero un comunista togliattiano e leninista, con un amore irrazionale per l’Unione Sovietica, piuttosto anacronistico per la mia età. Proprio per questo, sentitomi investito dal Segretario del compito di rappresentare la “linea” del Partito, tenni una relazione improntata ad un entusiastico appoggio alla posizione di Occhetto: partii dalla svolta di Lione, per poi passare a quella di Salerno per dimostrare che noi comunisti avevamo sempre saputo adattarci pragmaticamente al mutamento delle condizioni storiche. La svolta della Bolognina si inseriva a pieno titolo in questo percorso, così conclusi. Dopo un paio di interventi, però, chiesi di nuovo la parola, come semplice militante e non come membro della Segreteria. E nel secondo intervento mi scagliai con virulenza contro la svolta, con commoventi richiami all’orgoglio comunista, alla lotta di classe, alla gloriosa Rivoluzione d’Ottobre. Una schizofrenia che oggi mi fa sorridere ma anche vergognare…Arrivò il Congresso della svolta, il XIX, nel 1990. Io aderii alla mozione presentata da Armando Cossutta. Era la mozione che contava sul minor numero di sostenitori (alla fine prese appena il 3%). L’essere in pochi catapultò un ragazzo come me tra le figure di maggior rilievo della mozione. Durante la campagna congressuale ogni giorno venni inviato in una sezione della città e della provincia a sostenere le nostre posizioni. Io ero un ragazzo di 23 anni, e mi trovavo a confrontarmi con i compagni prestigiosi che sostenevano le mozioni di Occhetto e di Ingrao. Un’esperienza irripetibile. Un giorno, in un’assemblea plenaria dei cossuttiani, Armando Cossutta nelle conclusioni richiamò un passaggio del mio intervento, citandomi per nome. Fu un’emozione enorme; per me lui era un mito, e in un contesto improntato all’ortodossia avere il consenso pubblico del leader non era cosa di poco conto. Un anziano compagno volle vedermi riservatamente una mattina per dirmi di stare attento agli invidiosi…Roba da Comintern! Al congresso di Sezione presentai farneticanti emendamenti alla mozione Occhetto che rivendicavano la tradizione comunista, il marxismo leninismo (senza trattino) e la Rivoluzione d’Ottobre. Ebbi un consenso molto superiore alla media nazionale, e fui eletto delegato al Congresso di Federazione. Uno dei miei emendamenti era stato approvato dall’intero Congresso di Sezione, e non solo dai cossuttiani: era quello in cui volevo emendare la frase di Occhetto sulla “democrazia come via per il socialismo” in “non c’è democrazia senza socialismo”. La differenza è evidente, ma forse la maggioranza dei compagni non se ne rese conto. Al congresso di Federazione fu chiamato ad intervenire contro il mio emendamento il grande Mario Tronti, uno dei teorici più lucidi del Partito. Ed anche qui io, giovanissimo, ebbi l’onore di sostenere le mie posizioni dopo di lui, di fronte all’intera assemblea dei delegati. L’emendamento fu naturalmente respinto…Dopo il Congresso, disilluso e deluso, mi allontanai dal Partito e non partecipai al doloroso percorso che portò, nel 1991, allo scioglimento del PCI e alla fuoriuscita di molti compagni, compresi i cossuttiani . Mi distaccai dalla politica attiva, per dedicarmi alla mia vita che avevo tralasciato in nome di un ideale superiore. Ma ancora oggi ricordo con affetto e riconoscenza tutti i compagni che, ormai più di 20 anni fa, mi dimostrarono con atti e parole che esistono uomini “diversi”, e che la politica non è solo perseguimento di un interesse personale. Ancora oggi, quando mi capita di dover esprimere in sintesi come la penso, dico con orgoglio che “sono un uomo del PCI”..

sabato 26 novembre 2011

da Vincenzo Serio

Mi chiamo Vincenzo Serio sono nato nel 1950 e a 19 anni mi sono iscritto alla FGCI a Napoli.
Anni molto intensi di lotte e di scontri con i fascisti quelli dal 1969 al 1972, ricordo con molto affetto i miei compagni di lotta di quel tempo: Attilio Wanderlig, Claudio Pomella, Rosario Messina, Rossano dello Iacovo, Vincenzo Matafora e altri; non ci siamo mai tirati indietro! Nel 1970 mi iscrivo al partito, sezione “centro” di Napoli.
Nel 1971 partecipai al congresso nazionale della FGCI a Firenze. Il partito era rappresentato da Enrico Berlinguer da poco eletto segretario. Mi feci autografare la tessera del 1971 che conservo tra le cose piu’ care. Alla sez. centro ci sono rimasto per 22 anni, fino allo scioglimento del PCI..Nel 1978 divenni segretario della sezione, una sezione importante con 900 iscritti tra residenti del quartiere e cellule dì azienda di bancari , telefonici, giornalisti,ecc.. Anni straordinari, la politica era tutt’uno con la nostra vita, nascevano amicizie fraterne, amori, si formavano famiglie che ancora oggi sono una bella testimonianza di quel tempo. Anche io, girando per sezioni di partito conobbi una ragazza che sarebbe poi diventata mia moglie e che mi ha dato due splendidi figli che sono, per fortuna, anche loro “compagni”che il PCI lo conoscono solo dai racconti del padre.
Voglio raccontare un aneddoto simpatico della sezione centro.
Avevamo tra le nostre iscritte al circolo della FGCI molte ragazze bellissime che frequentavano una scuola d’elite di Napoli che si trovava in via chiaia, il liceo linguistico internazionale, e i dirigenti provinciali del PCI mi chiedevano continuamente di venire in sezione a tenere riunioni, tra i piu’ assidui c’erano Andrea Geremicca e Benito Visca, allora molto giovani.
Ho visto nascere un amore importante tra Benito e una di quelle ragazze, un rapporto che sarebbe durato molto tempo. Ma quello che era formidabile era Geremicca, peccato che sia recentemente scomparso, ne avremmo riso insieme di queste “memorie”. Lui aveva un modo suo di approcciare le compagne che attiravano la sua attenzione. Cominciava a scrivere bigliettini che, dal tavolo della presidenza, dove lui sedeva, cominciavano a volare per tutta la sala. Una frenesia che l’ufficio postale a confronto era uno scherzo. Il tutto sotto lo sguardo arcigno di disapprovazione del compagno Luigi Castaldi dei telefonici che tentava, senza successo, di interrompere le comunicazioni. Dopo l’esperienza della sezione entrai a far parte della segreteria cittadina di Napoli con Visca segretario ed entrai negli organismi dirigenti (comitato federale e direzione) dove ci sono rimasto per molti anni ancora fino alla conclusione della vicenda del PCI. La mia militanza e’ poi continuata anche nel PDS/DS ed oggi PD ricoprendo vari incarichi politici e istituzionali,……..ma questa e’ un’altra storia.

da Valerio Caramassi

sono stato iscritto alla fgci e al pci. in toscana ho avuto responsabiità primarie in circoli, sezioni, zone, federazione (LI), regionale. sono uscito dal pci quando il pci è uscito.... e non sono rientrato più da nessuna parte e in nessun partito. ho da offrire un aneddoto che forse spiega come si stava in quella comunità. come ricorderanno molti degli allora militanti e dirigenti, Berlinguer (è un caso che solo questa parola mi è venuta con la maiuscola?) fece di persona un sopralluogo sui luoghi terremotati dell'irpinia. e come ricorderanno gli stessi, fu in quella occasione che Berlinguer annunciò l'alternativa democratica in sostituzione (pur argomentandola in continuità) con il compromesso storico. il fatto è che io non potetti sentire l'annuncio ai TG poichè ero in viaggio. da roma (botteghe oscure), dove avevo partecipato ad una riunione, a piombino, dove avevo una assemblea di sezione. allora non esistevano i telefonini. arrivai trafelatissimo, e pure in ritardo, alla sezione "salivoli". il dibattito era già iniziato da un bel pezzo. salutai i compagni e presi posto. dovevo concluderlo, quel dibattito. e dunque ascoltai attentamente gli interventi che continuarono a susseguirsi mentre contemporaneamente davo un'occhiata agli appunti della introduzione del segretario di sezione. nulla, negli interventi che ebbi modo di ascotare, fece riferimento allo shift. forse perchè il tema all'odg era riferito alla situazione delle acciaierie. In ogni caso, quando presi la parola, come si usava allora, feci riferimento agli scenari internazionali e nazionali di contesto. non ero mai stato convinto dal (e del) compromesso storico e tuttavia, come tutti, "difendevo la linea" pur piegandola alle mie sensibilità di ingraiano. naturalmente i compagni sapevano ben interpretare il mio "codice". e proprio per questo, in un momento di massimo sforzo argomentativo, un compagno, il compagno carli, mi interruppe raggiante: "valerio, smorza! rilassati! il segretario stasera ha annunciato l'alternativa democratica". non mi ricordo a quale panegirico feci ricorso. mi ricordo che fui invaso da uno stato d'animo misto fra l'esultanza e l'imbarazzo e cercai comunque, in modo certamente più sciolto, di argomentare la necessità dell'incontro fra le "masse cattoliche, comuniste e socialiste". il pci, come è stato molto più autorevolmente detto, era insomma "un'orchestra jazz, dove lo spartito era lo stesso per tutti ma dove tutti, all'interno di quello spartito, potevano esercitarsi negli a solo". Oggi pullula di solisti senza che si riesca ad intravedere un orchestra.

da Mauro Zanella

1978 o forse il '79, a casa di Umbe (Umberto Contarello) ci sono Pietro Folena, Attilio Orecchio, Dorigo, Umbe e il sottoscritto, poi arriva Tom Benetollo.... Sono circa le tre di notte. La segreteria allargata della FCGI Veneta era al completo. Quello che allora chiamavamo "elaborazione" oggi si direbbe brain-storming. L'obiettivo: la FGCI deve essere più' movimento che partito.
Nella stanza rimbalza un idea; dieci, cento, mille aggregazioni, centri e comitati delle ragazze, dei lavoratori, degli studenti e per la pace...Il nome fu un progetto politico: la centrale giovanile rivoluzionaria. Un idea minoritaria al successivo congresso della FGCI, ma un intuizione senza precedenti.
Alle 5 e qualcosa, Attilio ed io dobbiamo prendere il treno, ma prima facciamo un salto alla panetteria che sforna "bomboloni alla crema" appena sfornati. Un idea geniale,la giusta paga per un gruppo che nell'idea che il cambiamento , qui e ora, e' necessario ha vissuto, e' cresciuto e sono sicuro continua a vivere. E' stata una straordinaria esperienza di vita.
Un balzo indietro. 1972, settembre o forse ottobre, ho appena ricevuto la tessera della leva Gramsci della FGCi da Piero Manfe' ( un compagno e un amico per una vita). Nei primi giorni di scuola ( la superiore) ci sono assemblee ( sul trasporto pubblico), parlo anch'io. Un compagno, Giacomelli, mi chiama in disparte e mi chiede:" te la senti di guidare la manifestazione a favore del Vietnam di Venerdì?" Penso si tratti di fare "picchetto" davanti alla scuola e senza esitare dico di si..Forse ho frainteso, o forse non sapevo allora dire di no, comunque quel Venerdì mi trovo in una vecchia seicento con il megafono collegato a scandire "USA go home". Assolutamente stonato, ma pieno di gioia.

da Angelo Pavia

Ero un giovane di 20 anni, come tanti che cercavano di
sbarcare il lunario tra un'ideologia proveniente dall'est
europeo o una Divina Provvidenza che potesse dare una
speranza di vita. Qualcuno disse che si poteva trovare un
accordo tra questi due filoni, lo chiamò "compromesso
storico", ma pochi capirono il vero significato. Enrico
Berlinguer, segretario del PCI, si impegnava per insegnare
che l'Italia era diversa dall'URSS e che il nostro percorso
doveva essere completamente diverso.
Un giorno di fine inverno, il 16 marzo, rapirono il
presidente del maggiore partito del momento. La Democrazia
Cristiana, nel bene e nel male, rappresentava la storia
italiana dal dopoguerra e Aldo Moro era tra le maggiori
personalità politiche di quel tempo.Erano periodi bui, li
chiamavano "anni di piombo". In nome di una
pseudorivoluzione si sparava. Si uccidevano persone che,
semplicemente, facevano il loro lavoro. Ero a casa di un
amico, ci eravamo iscritti alla facoltà di Portici, quella
di agraria. La madre accese la tv e dopo poco capimmo che
niente sarebbe stato più lo stesso. Furono settimane
tremende, si temevano perfino le sorti della Repubblica. Il
9 maggio 1978 fu ritrovato il corpo di Aldo Moro ucciso
dentro ad una Renault 4. Avevo le chiavi della sezione
Arenella di via Giotto. Senza prendere tempo, parlando con
qualcuno, la aprii, presi la nostra bandiera e la posi
vicino ad un albero sulla strada con un drappo nero di
lutto. Era giusto che il PCI si dovesse sentire a lutto per
la morte di un autorevole avversario?
Avevo vent'anni e poca esperienza, ma forse il gesto fu
gradito. Mi ritrovai, dopo non molto, a collaborare con
l'apparato tecnico della Federazione, quella di via dei
fiorentini. Non ho mai avuto ambizioni politiche, ma aprire
le porte scorrevoli a tanti dirigenti mi faceva sentire
importante. Soprattutto mi emozionava poter far entrare una
persona che si vedeva subito che era ad un livello più alto
degli altri. Ci son voluti 30 anni, ma ora è Presidente
della Repubblica!
Un giorno mi chiesero se, per fare il turno di notte,
volevo la pistola. Capii che quel "lavoro" non era per me.
Non avevo speranze, dovevo emigrare per trovare un lavoro
onesto. Quando vidi alcuni miei amici vendere sigarette di
contrabbando per guadagnare qualcosa capii che dovevo
emigrare. A Napoli o vivi colluso con la malavita o te ne
devi andare. Posi il problema politico che se partivano
sempre e solo gli onesti sarebbero aumentati sempre di più
i malavitosi, ma per me era già tardi.
La mia storia non è diversa da quella di tanti giovani
che hanno vissuto il travaglio della fine di un grande
partito del secolo scorso. Dalla campagna elettorale per
Valenzi sindaco al festival dell'Unità di Napoli del '76,
dalla strategia della tensione alla morte di Enrico, dalla
caduta del muro alla nascita del PDS, c'è chi ha resistito,
chi ha abbandonato la militanza, chi è andato in altri
partiti, qualcuno addirittura nel campo avverso, ma tutti
abbiamo avuto in tasca la tessera del PCI.

venerdì 25 novembre 2011

da Antonino Marino

NON sono mai stato iscritto al Pci, ma sono stato iscritto alla Fgci, ed ho avuto la possibilità di votare il Pci alle amministrative del 1990, anche se era un partito già attraversato dalla svolta di Achille Occhetto. In questa curiosa iniziativa in fb mi piace ricordare come l'originalità del PCI italiano appartenga alla storia del paese, un partito che non ha mai governato il paese, ma che a mio avviso è stato funzionale alla storia di esso, basta pensare che pur non governando ha governato tantissime regioni, diverse metropoli italiane, tantissimi comuni, ha orientato coscienze, culture, arte, musica, canzoni, letteratura, pittura e tanto altro. Pur amando sempre il futuro , questo gruppo di Rondolino e Velardi mi è piaciuto e siccome si chiede una testimonianza personale ne porto tre: l'emozione provata per i funerali di Berlinguer, ero uno strano 12enne che sceglieva il tg a Topolino ( a 40 anni mi ritrovo a optare su Topolino rispetto al Tg), la prima partecipazione da delegato ad un congresso della fgci a 15 anni a Bologna dove Pietro Folena lasciava il passo a Gianni Cuperlo, ed infine un viaggio nella storia, 3 ore ad Oneglia a casa di Alessandro Natta, lucido pensionato, che offrì a me a Francesco Ori, ed altri 3 modenesi una splendida lezione privata di storia del nostro paese che venne poi riportata nel giornale della Sinistra Giovanile

da Maria Luisa Mello

Anni '70, FGCI San Giuseppe Porto.

Il circolo era pieno di studenti del Genovesi, ma anche un po' del Fonseca, tutte ragazze, era un Magistrale.
Ma non c'erano solo studenti, c'erano i ragazzi del quartiere, ragazzi con esperienze diverse dalle nostre, che venivamo tutti da famiglie del ceto medio con aspirazioni di ascensore sociale.
Eravamo giovani, e qualcuna pure carina. I ragazzi erano come erano gli adolescenti di allora: magri, brufolosi, molto intellettuali, e incapaci di iniziativa verso le ragazze, che invece si davano da fare.
Erano pure i tempi dei collettivi femministi, cui partecipavamo in clandestinità rispetto alla FGCI che non li apprezzava. Erano anche i tempi della rivoluzione sessuale (beh, insomma con qualche anno di ritardo), cosa che il partito disapprovava in modo deciso.
Per tornare al circolo, il mix sociale, l'età e il carattere pepato della maggior parte delle ragazze, del resto perchè una gatta morta avrebbe dovuto interessarsi alla militanza politica?, crearono una vera bomba biologica.
Ad accrescere la temperatura dell'ambiente, c'era anche la particolare situazione in cui si trovava all'epoca un giovane figiciotto nei nostri licei quasi monopolizzati dai gruppettari.
Io ero la sola figiciotta in una classe di ultras, dove la media si attestava su Lotta Continua, per dire.
Ci sentivamo tosti, diversi, speciali...
Il sabato sera ci trasferivamo in blocco a casa di Nicola, che aveva una grande casa, molti dischi e genitori resi tolleranti dall'età avanzata. Ci venivano anche quelli dei gruppi.
Le serate si svolgevano fra pomicio, dibattito, taralli e birra. Il casino succedeva quando si cominciava a cantare, perché quasi sempre qualche provocatore intonava Contessa, e arrivati alla strofa 'se c'è chi lo dice sputategli addosso' scoppiava la rissa.
Nel '76 ci appassionammo molto alla vicenda 'club delle cornicelle', un fenomeno di scambio ricorsivo di fidanzati fra E.D. e N.I., tanto che poi non ho mai saputo in quale configurazione le due coppie si siano stabilizzate.
Poi arrivò il '77, brutto anno, le aggressioni nelle università, e per me soprattutto l'esame di Analisi Matematica I. Scelsi di laurearmi, e presto; entrai in un tunnel e all'uscita scappai a Milano.

da Pompeo Volpe

Mi sono iscritto alla sezione Universitaria del PCI nel dicembre 1973, circa un mese dopo aver iniziato la frequenza dei corsi di Medicina e Chirurgia dell’Università di Padova. L’idea, maturata negli ultimi anni del Liceo, era che i sei anni di università dovessero essere un periodo di preparazione alla professione del medico concepita come servizio al prossimo. Accanto ad un percorso personale di studio ce ne doveva essere uno politico inteso come partecipazione diretta ai processi di trasformazione delle strutture universitarie; la qualità della mia futura professione dipendeva non solo dalla bontà degli studi compiuti ma anche dalla concreta modificazione della Facoltà universitaria all’interno della quale tali studi si svolgevano.

Le motivazioni che mi avevano portato ad aderire al PCI erano sicuramente diverse da quelle di altri compagni. In effetti, al medesimo approdo si giungeva con le più eterogenee motivazioni, tenuto conto della diversità di estrazione sociale, formazione culturale, provenienza geografica dei militanti della sezione Universitaria. Io non ero di estrazione operaia, non avevo un retroterra familiare di sinistra né alcuna precedente esperienza politica, non avevo alcuna passione per la politica in senso lato; eppure sentivo il dovere di fare politica per compiere un percorso universitario completo. Non era passione, era convinzione.

Emblematico, per il mio approccio alla politica in quei primi anni di militanza, fu il lungo dibattito avviato da Giovanni Berlinguer su L’Unità del 14 dicembre 1973 con l’articolo “I medici di domani” incentrato sul profilo dei medici italiani di lì a 5-10 anni. La questione cruciale era relativa alla collocazione della Facoltà di Medicina dentro o fuori dell’Università, ovvero quale fosse la migliore struttura formativa per gli studenti in relazione ai bisogni sanitari del paese in tema di prevenzione, terapia e riabilitazione. La analisi della qualità degli studi era collegata strettamente alla considerazione delle qualità professionali dei medici, e non si sottaceva il problema numerico ovvero il rapporto medico/paziente che nell’arco di 5-10 anni sarebbe sceso a valori di 1/250 contro la media europea di 1 per 600-800 abitanti. Il dibattito (riportato in larga parte nel volume collettivo AAVV, Le Scuole di sanità, 1976, Il Pensiero scientifico Editore) si svolse dapprima sulle pagine de L’Unità, ebbe momenti di discussione interna, sia alle Botteghe Oscure che nella scuola di partito delle Frattocchie, e si concluse con un convegno pubblico tenutosi a Roma (28 e 29 novembre 1975). In quella sede fu presentata e discussa una bozza di legge per l’Istituzione delle Scuole di sanità, una struttura di tipo nuovo per la formazione del personale medico e paramedico, che avrebbe dovuto sostituire la Facoltà di Medicina. La nostra politica non era rivendicativa, protestataria, era propositiva, frutto di riflessione, di studio; non sollecitava la fantasia, cercava di cogliere i problemi fondamentali e di trovare soluzioni di interesse generale - si poneva per esempio, il problema della regolamentazione degli accessi in relazione ai costi ed alla qualità degli studi -; era forse una politica noiosa, ma guardava con fiducia al futuro da costruire.

Negli anni immediatamente successivi, qualcosa modificò il nostro progetto.

giovedì 24 novembre 2011

da Pasquale Bruno

Quando ero all'università-napoli-sociologia fine 76, simpatizzavo per i gruppettari,partecipavo alle riunioni del movimento studentesco 76 -77,la "cacciata di Lama alla Sapienza di Roma da parte degli autonomi",rappresentò lo spartiacque. Almeno per me. Pensai che era arrivato il momento di decidere da che parte stare. Mi iscrissi alla Fgci nella mia città, a Castellammare di Stabia - dopo numerosi tentativi. Non c'era infatti quasi mai nessuno che facesse piu' le iscrizioni..incredibile... in una delle roccaforti meridionali del Pci non si facevano piu’ le tessere della Fgci... spazzati via dal movimento del 77 e dalla contestazione giovanile... Ricostruii il circolo Fgci di Castellammare di Stabia in un paio d'anni e fui catapultato in segreteria provinciale fgci - nel periodo del terremoto dell’80. Gianfranco Nappi -mitico segretario provinciale- mi mandò come prima esperienza da responsabile del lavoro di massa (lotta alle tossicodipendenze ecc.) ad una serie di riunioni promosse dal Comitato di lotta alle tossicodipendenze - composto per lo piu’ da ragazzi che continuavano regolarmente a bucarsi. Per me allora assai a digiuno di materie cosi’ complesse, un'esperienza sul campo da far accapponare la pelle; ma, superato lo smarrimento iniziale, una bellissima esperienza, che ancora mi porto dentro (mi sono poi laureato a sociologia, proprio su informazione e droghe).Negli anni 70-80 la concreta esperienza nei movimenti connotava il nostro fare politica, piu’ delle ideologie di cui eravamo – ovviamente - tutti permeati.
Fui promosso in segreteria provinciale Fgci per il mio impegno (250 iscritti in meno di un anno e mezzo - in un circolo che non ne contava piu’ quasi nessuno) nonostante la mia inesperienza. Ricordo che qualche anno prima ad un concerto allo stadio S.Marco di Castellammare da noi organizzato con l’allora giovane cantautore Antonello Venditti, dimenticai di provvedere al compito che mi era stato affidato dal partito: sovrintendere all’allaccio della corrente al bar dello stadio. 10.000 spettatori inferociti per la mia dimenticanza. Meno male che un operaio della mitica Italcantieri dell’epoca risolse il problema all’ultimo minuto...

mercoledì 23 novembre 2011

da Antonio Basile

A 18 anni passai dalla FGCI al PCI, così succedeva. Divenni responsabile dell'organizzazione, e dopo pochi mesi fui eletto Segretario (atipico) PCI della Sezione Mercato-Pendino,in Via del Sebeto, dopo le dimissioni di Antonio Gianfrano, la cui prematura scomparsa ci addolorò tutti. A quell'epoca ci conoscevamo tutti. Io conoscevo la moglieTina, i figli, in particolare il cognato, Pasquale Tucci. Anche Pasquale Tucci morì giovanissimo, 28 anni, mentre ritornava dal festival del cinema di Venezia. Grande personalità, compagno di grande cultura e di immensa umanità. Di lui ricordo gli interminabili dibattiti su Lacan, i filosofi francesi, Deleuze,la scuola tedesca, Marcuse. Ricordo la sua stanza a casa della mamma, carica di libri, luogo di lunghi incontri pomeridiani, il caffè, le Gitanes. Con lui avevamo stabilito un atteggiamento controcorrente. Non ci piacevano gli Intillimani, preferivamo John Coltrane, Max Roach. Nella letteratura,grandi sostenitori di A.A.Rosa, poeti come P.P.P., Edoardo Sanguineti, artisti come Giò Pomodoro. Sempre in conflitto con i "GENERALI" della sezione, che volevano farci vendere L'Unità, mentre noi preferivamo La Rinascita, contestando questo come "abuso di potere e dispotismo"...uà!!!!!. grandi sostenitori di Pietro Ingrao,"Masse e potere", soprattutto la frequentazione, per noi onorevole, delle Frattocchie. Grande scuola politica!!!!!
Ma poi, il sabato, andavo (di nascosto) in discoteca, incassando le critiche di Gennaro Napolitano, "presidente dei probiviri"... terrore!!!
E vorrei ricordare le grandi lezioni di politica del grande Gennaro Rippa, operaio, intellettuale, la cui biblioteca era nella federazione PCI.

da Francesca Contarello

Avevo 16 anni, era quindi il 1978.
Dal ricordo della giacca di panno pesante a riquadri bianchi e neri poteva essere ottobre.
Era il mio primo attivo della Fgci a cui partecipavo.
Via Beato Pellegrino, Padova, Sala Rossa. Alle pareti grandi ritratti dei nostri padri politici. In fondo un lungo tavolo di legno scuro, antico, e dietro il segretario di allora, Pietro Folena e con lui altri compagni del Direttivo.
La sala era affollatissima e io ero seduta in una delle ultime file. Tutto si svolse con la solita puntuale, meticolosa ritualità . Ascoltavo attenta , emozionata e un po’ agitata. Ero per la prima volta in un posto importante. Il Segretario fece la sua lunga relazione iniziale dopo essersi tolto l’orologio e averlo appoggiato al tavolo. Seguirono poi molti interventi dei compagni, con un ordine e una successione solo apparentemente casuale ma che in realtà rispecchiava il ruolo, l’età e la preparazione. I compagni e le compagne più giovani, senza un incarico o una responsabilità particolare intervenivano verso la fine del dibattito. Era così, ed era giusto così. E poi arrivò il momento delle conclusioni. Non mi ricordo chi fece l’intervento finale, mi ricordo che fu seguito da un lungo applauso.
Erano passate circa tre ore in cui nessuno era uscito o entrato, nessuno si era alzato. Io avevo riempito un quadernetto di appunti.
Alla fine degli applausi feci una cosa “stonata” . Avventata e indisciplinata come ero, alzai la mano: nella mia ingenua arroganza chiedevo di intervenire. Mi sentii tutti gli occhi puntati addosso. Da dietro il tavolo un compagno, allibito, con tono fermo e giudicante mi disse che non era possibile, non era contemplato intervenire dopo le conclusioni.
Capii di essere entrata in un mondo dove le gerarchie avevano la giusta importanza.

martedì 22 novembre 2011

da Stefano Ghirardi

Mi sono iscritto alla FGCI nel 1970, mitica sezione di Porta Maggiore nel
cuore del Pigneto. Il PCI aveva il 60%, uno dei pochi quartieri di Roma dove
non esisteva la sezione del MSI.
La prima cosa a cui partecipai da giovane comunista fu un comizio di Pietro
Ingrao a San Giovanni. Il circolo non aveva un segretario e per fare gli
alternativi si decise che fosse gestito da un collettivo degli iscritti. Però,
in fondo, i leader del circolo erano Umberto Sozzi e Paolo Bognetti.
Con i compagni di Porta Maggiore partecipammo a tutte le manifestazioni.
Indimenticabile rimane il presidio dei lavoratori della Coca Cola a Piazza di
Spagna cui partecipò anche Gian Maria Volontè: era natale del ‘70.
Fondammo anche un gruppo musicale: Umberto Sozzi, Ester Gennai ed io. Con poca
fantasia ci chiamavamo Umberto Stefano ed Ester (imitavamo Peter Paul e Mary).
Cominciammo a girare per feste dell'unita e a maggio del ‘74 arrivò l'attimo
di notorietà: facemmo tutta la campagna elettorale del referendum sul divorzio,
decine di manifestazioni in giro per Roma e provincia e quando lo vincemmo ci
chiamarono a partecipare alla grande manifestazione di San Giovanni. 200mila
persone! Addirittura partecipava Claudio Villa...
Salimmo sul palco per primi - eravamo i più scarsi - e su consiglio di un
amico ci presentammo come FolkTre. Iniziammo con una canzone sul 12 dicembre e
poi, con una mossa astuta, facemmo una vecchia canzone del 1946 “Olè olè olè
co’ De Gasperi nun se magna". Un successone....peccato che subito dopo un
dirigente della segreteria cittadina ci fece un cazziatone perché con quella
canzone avevamo “solleticato” un anticlericalismo che il PCI in tanti anni
aveva cercato di evitare.
Rimanemmo per sempre quelli di "co de gasperi nun se magna“.

da Peppe Nocera

...se ai miei 12 anni, non avessi iniziato ad andare per strada strillonando "L'UNITA'!!", se non avessi corso come un pazzo per portare quanto prima i risultati degli scrutini elettorali in Sezione, dove un compagno serio come De Prosperis annotava con una precisione sovietica il tutto,se non avessi lavorato con passione a 16 anni al Festival dell'Unita' del '76, se non avessi partecipato a riunioni su riunioni su come portare avanti le nostre lotte, sempre all'insegna del bene comune e la difesa dei piu' deboli, se non avessi partecipato a tutti i cortei, con l'acqua e col sole, a Napoli come in tutta Italia, se non avessi svolto tutti i servizi d'ordine che mi spettavano, se tutto cio' non l'avessi fatto... non mi sentirei cosi' orgoglioso come oggi, per averlo coscientemente e passionalmente fatto...

da Giancarlo Arcozzi

Qui in Emilia-Romagna la militanza nel PCI aveva molto a che fare con la gestione del potere. E perciò il fascino della militanza andava a sbattere con il realismo dell'Amministrazione. E il partito non riusciva ad essere "intellettuale collettivo" e neanche organismo solidale. La mia scelta di lasciare il lavoro per entrare nel Partito nel 1979, si è rivelata una tragedia. Dopo 8 anni alle dipendenze del PCI, passai al movimento cooperativo dirigendo con buoni risultati due Consorzi unitari (Lega/ConfCoop). Nel '98 vengo licenziato con motivazioni palesemente pretestuose, e con l'assicurazione dei due presidenti che presto avrei avuto un nuovo incarico. Passano le settimane e comincio a chiedere spiegazioni e sostegno a tutti i compagni. Tutti di nebbia: ho toccato con mano la meschinità e la mediocrità morale di gente che pure amministrava risorse pubbliche e/o predicava ideali socialisti. Dopo 8 mesi, il segretario della Federazione mi aiutò a impiegarmi con un contratto di collaborazione. Se nel '79 non avessi fatto quella scelta oggi sarei in pensione e vivrei dignitosamente. L'abbandono totale che ho subito ha stravolto la mia vita e soprattutto ha traumatizzato mio figlio. Sono ancora disoccupato in attesa di pensione e spero tanto che la proposta di Fini, di togliere la pensione ai parlamentari, abbia successo.
E' vero che sono intransigente e che ho contrastato alcuni episodi di corruzione/clientelismo, ma voglio sperare che la mia misera esperienza nel PCI non sia dipesa da ciò.

da Laura Tori

Difficile estrapolare un singolo episodio dai molti anni passati dentro al PCI; alla FGCI mi sono iscritta nel 1977 ma ho avuto la fortuna di avere genitori comunisti e pure nonni e quindi in casa quell’aria si respirava ancora prima della tessera, anzi prima ero iscritta ai Pionieri, quell’associazione laica e con scopi educativi che si era inventato Gianni Rodari negli anni Cinquanta. Dunque il passaggio al partito non ricordo con esattezza quando sia avvenuto ma credo nel 1985/6 e la mia ultima tessera è stata quella del 1990, visto che il febbraio 1991 vide lo scioglimento del PCI. Dopo niente più adesioni con tessera.
Il partito era la mia, la nostra quotidianità; insieme ai compagni andavo a scuola, facevo le riunioni, ma andavo al cinema, ai concerti e anche a sciare. Ai concerti in realtà andavamo a lavorare perchè il nostro servizio gratuito da figiciotti era molto gradito ma non ci sentivamo e non eravamo sfruttati! In questo modo tra il 1976 e il 1985 circa ho avuto modo di ascoltare i Clash e i Ramones, Dalla&DeGregori, Guccini, De Andrè, i Rolling Stones! e molti altri. Organizzare concerti poi è diventato il mio mestiere e dunque pure in questo ambito devo qualcosa a quella esperienza!
I ricordi che voglio fissare in questa sede sono due: il giorno del comizio conclusivo di Enrico Berlinguer alla festa nazionale dell’Unità a Torino nel 1981 io ero ricoverata all’ospedale perchè mi ero fatta male a un occhio; le settimane precedenti avevo lavorato con i compagni alla “Festa più bella” e 5 giorni prima della fine: ferita all’occhio. Così dal mio lettino, sintonizzata su Radioflash, ho ascoltato in lacrime tutto il comizio con le infermiere che mi volevano tranquillizzare ‘che il danno all’occhio non sarebbe stato irreversibile..ma io piangevo perchè non potevo essere al parco ad ascoltare con gli altri mica per le sorti del mio occhio.
L’altro episodio si riferisce alla foto che allego: sono le bandiere della fgci di Torino listate a lutto ai funerali di Berlinguer. Dopo i due giorni di passione trascorsi in federazione in via Chiesa della Salute dopo il malore di Padova, la notizia che non avremmo voluto sapere arrivò: tutti piangevano. Dalle giovani ragazze come me agli austeri compagni del servizio d’ordine. Subito ci si riunì per organizzare la partecipazione ai funerali e ci rendemmo conto che non avevamo bandiere “belle”. Così in un pomeriggio assolato io e Umberto Radin partimmo con la mia 127 alla volta del “magazzino feste dell’Unità” di Milano e entrati nell’olimpo dei gadget del PCI (quando la parola gadget non faceva ancora parte del nostro vocabolario) comprammo 50 bandiere che la sera vennero listate a lutto da me, mia mamma e mia nonna con altrettanti nastri neri: sono appunto quelle della foto.
La vita con il partito era questo e malgrado io sia sempre stata una borderline dentro a quel partito, oggi quel luogo della condivisione, del confronto, delle liti, della crescita e delle amicizie di una vita, mi manca.

da Oreste Gabbanelli

Sono stato prima militante del movimento studentesco anni 1970-72,poi iscritto al PCI dal 74 all'86.Quartiere Pendino a Napoli zona di forti tradizioni monarchiche dove il MSI prendeva alla elezioni percentuali intorno al 50%, a Forcella era difficile fare comizi e campagne elettorali e in queste difficoltà ho temprato il mio carattere e contemporaneamente ho capito il valore della cultura come elemento fondamentale della democrazia.La vita passata in sezione si intrecciava con quella privata in maniera quasi totale. Gli amori si rafforzavano ed anche le amicizie con i compagni con i quali si condividevano piccole battaglie che per noi sembravano grandi occasioni di crescita per la gente del quartiere e per Napoli in generale.La felicità per avere
aiutato anche una persona a risolvere problemi ,a volta di sopravvivenza,si intrecciava con le delusioni per le sconfitte politiche ma anche umane.I momenti peggiori li ho vissuti quando l'utopia della battaglia politica si scontrava con la miseria umana e personale sia degli stessi compagni di lotta(della sezione o dirigenti del partito locale e nazionale) che dei cittadini stessi.
Mi sono però anche divertito ed ho riso tantissimo facendo politica. Mi ricordo che in occasione di un congresso della sezione,in preparazione di un congresso provinciale del PCI napoletano all'inizio degli anni 80,ero particolarmente in tensione perchè le conclusioni le avrebbe tenute Giorgio Napolitano. Conoscevo la proverbiale puntualità del Presidente e anche la costituzionale tendenza al ritardo per le nostre riunioni di sezione.Nonostante ciò arrivai in sezione con 10 minuti di ritardo (per me significava il massimo della puntualità) e trovai Napolitano seduto in mezzo alla sala semi vuota che col dito verso il suo orologio da polso mi indicava l'enormità del mio ritardo in quanto segretario di sezione.
Cercai di balbettare qualche scusa lui però subito mi mise a mio agio sorridendo e distraendomi con domande sulla nostra attività politica.Ero felice anche perché la sezione si riempì presto. Purtroppo però un militante di vecchia data aveva avuto la malaugurata idea di portare con sè due nipoti quindicenni, zona Forcella, che non capivano una mazza di politica. Una delle due mentre
io ero intento a colloquiare con Napolitano si girò verso la foto di Antonio Gramsci e con voce altisonante mi chiese quale fosse il nome di quel famoso cantante.Mi sentì sprofondare e mi resi conto subito che tutto il credito conquistatomi nella chiacchierata col Presidente era andato a farsi benedire.

da Luigi Limatola

Mi iscrissi nel 1972 al circolo FGCI della sez. Centro ora Carlo Fermariello
di S. Anna di palazzo, 5. Avevo 17 anni, mi fece compagnia mio
fratello Luciano che era più giovane di me di tre anni.Incontrammo tanti compagni che
poi divennero stimati dirigenti del PCI e dei DS.
Una esperienza di militanza e di vita, unica ed irripetibile, i festival provinciali e nazionali dell'UNITA', l'attività politica di volantinaggio ed
attacchinaggio.La solidarietà militante per le questioni di vita politica e
di vita vissuta.La mia assunzione nella CNA (federazione provinciale di Napoli), avvenne nel 1981 grazie ad alcuni compagni della sez. Centro. Sono
rimasto nella CNA sino al 1999 e non dimenticherò mai, chi mi ha dato l'opportunità
di crescere professionalmente ed economicamente. Se potessi ritornare indietro
nel tempo rifarei le stesse scelte per rivivere per un attimo della notte del 16 giugno 1975 nelle strade di Napoli per l'elezione di Valenzi, il funerale a Roma di ENRICO insieme ai compagni ed amici della CNA provinciale. In quella sezione Centro ci sono ancora oggi, e quando ci entro rivivo una parte della mia gioventù democratica antifascista ed immensamente felice! Grazie compagni! Grazie Pci!

da Fulvio Mozzachiodi

Tutto comincia nel 67. In Piazza del Mercato parla Vittorio Foa per il PSIUP. Non ricordo cosa ha detto, ma, appoggiato alla transenna della fermata dell’autobus,aspettando il 13 che è, come sempre in ritardo, lo ascolto e penso: “Mi sa che sono di sinistra …”
Ai primi di ottobre del 1968 sono in ospedale (a Pisa, lontano dalla mia città). Sento dei cortei di Città del Messico, ma anche di quelli di Piazza Verdi, a Spezia, dove si trova il liceo a cui sono iscritto. Mi scoccia essere chiuso in Ospedale, sta succedendo qualcosa.
Un pomeriggio di dicembre - l’ospedale è passato, ho cominciato regolarmente a studiare – esco dalla biblioteca civica e mi imbatto, letteralmente, nel corteo spontaneo per i morti di Avola. Bruno, Diego e Marco, alla testa del corteo, mi apostrofano : “Che cazzo fai, vieni dentro!”. Siamo arrivati fin sotto la Questura e ci siamo seduti per terra, i più esperti si coprivano il volto con le sciarpe.
Sono entrato in un giro e non ho più smesso: qualche riunione al fondo del Potere Operaio, il primo intervento in pubblico per il lancio dei comitati di base, l’occupazione delle scuole a cavallo dell’anno e subito FGCI, febbraio 1969. Sulla tessera c’era una frase di Lenin sull’energia rivoluzionaria delle masse. Una frase che, sempre perseguitato da quelli che erano più di sinistra, più marxisti, più leninisti, avrei usato molte volte per dire che l’importante era, appunto, l’energia: non che fosse proprio obbligatorio fare una rivoluzione armata con gli operai, i soldati e i contadini poveri; i capi manipolo, gli eroi e lo stato maggiore.
Comunque … ancora adesso, se non sto attento, rischio di chiamare, che so, la Prefettura, e annunciarmi come Mozzachiodi della FGCI. Mi considero ancora della FGCI e sono contento che Fabrizio Barca – è della FGCI pure lui, Circolo dei tecnici – sia al governo.
La tessera del PCI arriva nel 70, perché chi stava in segreteria provinciale dei giovani doveva fare anche l’iscrizione agli adulti, malgrado “l’autonomia della questione giovanile”. Era un periodo pieno di questioni: la questione femminile, quella meridionale. I più fighi dicevano “quistione” con la i.
Tre anni più tardi il segretario della Federazione mi chiama e mi dice, proprio così! se voglio fare il rivoluzionario professionale - sapeva come prendermi - per la FGCI. Certo che sì! Poi, dopo, il salto, a lavorare con i grandi nel glorioso PCI. Ho fatto un po’ di tutto, scuola e cultura, sezioni di fabbrica, enti locali, comizi in val di Vara. Nel 77 mi mandano a Frattocchie, al mitico corso di quattro mesi, direttore Luciano Gruppi .
Terminato il corso, passa un po’ di tempo e mi licenzio da funzionario del PCI (qualcosa non dev’essere andato per il verso giusto, all’Istituto di Studi Comunisti; o forse c’è andato troppo). Un paio d’anni dopo dal PCI tout court. Cambio anche città (ma questa è un’altra storia).
Sono rientrato (non a Spezia, solo nel PCI) al tempo di Occhetto (mi piace ammettere le mie responsabilità). Sempre per prendermi le mie responsabilità ,sono stato tra i primi a sollecitare la nascita del PD, qualunque cosa abbia voluto dire.
Fare di tutto un po’ nel PCI mi è servito.
Continuo: a fare di tutto un po’ e niente di preciso .

da Maria Chiara Risoldi

‎1977-1979 tre anni di luna di miele
La mia avventura nel Pci inizia nel gennaio del 1977 a Bologna. Lascio il Pdup, (e la direzione provinciale di cui facevo parte) e mi iscrivo al Pci.Dalle elezioni amministrative del 1975 facevo la consigliera di quartiere del Pdup nel quartiere Lame, (un popolare, periferico quartiere di Bologna). Donna, giovane, ( 23 anni), femminista, studentessa lavoratrice (bibliotecaria).....faccio politica da anni....il gruppo dirigente del Pci bolognese fa un investimento su di me..... anche se non risiedo nel quartiere e il gruppo consiliare del Pci nel quartiere è consistente, cifre "bulgare" si direbbe oggi, composto per lo più da uomini cinquantenni e sessantenni , mi propongono all'istante di diventare capogruppo del Pci. Il gruppo consiliare accetta la proposta della Federazione.Mi conoscevano da più di un anno e mi apprezzavano. Io accetto. Fare la consigliera del Pdup, che aveva un solo consigliere, era un conto. Fare la capogruppo del Pci, in un quartiere assai popoloso, era tutto un altro conto. Faccio una vitaccia: la mattina lavoro in biblioteca, il resto del tempo studio e faccio politica..... ma la passione è più forte della fatica.
11 marzo 1977. La mattina esco di casa per andare a laurearmi. Incontro un gruppo di vecchi amici del movimento, tra cui Francesco Lorusso. Baci, abbracci, auguri. Stanno andando ad interrompere un'assemblea di Comunione e liberazione. Io mi laureo, torno a casa a cucinare per la festa di laurea della sera. A metà pomeriggio mi chiamano dalla Federazione. Non mi ero accorta che nel frattempo a Bologna era scoppiata una guerra. Francesco Lorusso era morto negli scontri della mattina. Mi precipito in Federazione. Una assemblea che durerà tutta la notte. Lo scontro è tra chi sostiene le posizioni della Fgci sul movimento: attenzione e riflessione per capire e comprendere lo scontento giovanile, e le posizioni maggioritarie del partito, che leggono il 77 come un nuovo diciannovismo. La spaccatura nella federazione bolognese è profonda. Come per altro in tutta Italia. Io sposo con convinzione la posizione della Fgci. E con la Fgci inizia in quei mesi per me una "luna di miele". Nel quartiere Lame porto la posizione della Fgci e mi scontro con la componente più conservatrice del partito bolognese. Sono settimane di discussioni durissime, che detto per inciso sarebbe assai interessante andare a rileggere oggi, di fronte ai neonati nuovi movimenti giovanili e all'afasia del PD.
7 aprile 1977 esce il numero 01 de La Città Futura. La segreteria nazionale della Fgci dei tempi di D'Alema fu assai lungimirante: aprire un settimanale e farne un terreno di esplorazione, di discussione , di conoscenza di quanto stava allora mutando in Italia. Collaboro da subito, da Bologna, con il settimanale. Finchè un giorno di maggio Mauro Felicori, bolognese, vicedirettore del settimanale, mi telefona. " Tu sei attiva nel movimento femminista, al giornale abbiamo bisogno di una persona che sappia e possa dialogare con i movimenti femministi. Mi sei venuta in mente. Verresti a Roma a lavorare alla Città Futura?" Io accetto entusiata. Andare a fare la giornalista, andare a Roma, partecipare in prima persona all'esperimento Città Futura! Ebbi uno scontro con l'allora segretario cittadino del Pci, perchè tradivo l'investimento fatto su di me. Ma non ero una funzionaria di partito, avevo un lavoro , (dal quale scegliere di licenziarsi non fu facile), era mio diritto accettare una offerta così fantastica. E dunque con buona pace dei dirigenti del Pci bolognese, me ne andai a Roma.
26 ottobre 1979 esce l'ultimo numero de La Città Futura . Chiusa per volere di Amendola e Napolitano. Fu la fine della mia luna di miele con la Fgci e con il Pci.
La mia iscrizione al Pci nel 77 significò imboccare una strada che cambiò la mia vita. Crescita politica, crescita culturale, crescita umana. Tutte le mie scelte di vita successive, professionali ed esistenziali, sono condizionate da quella scelta. Dal 1988 faccio la psicoanalista: quegli eventi furono le mie sliding doors.

lunedì 21 novembre 2011

da Giorgia Carrozzo

Sono stata iscritta alla Fgci e al PCI, ogni cosa aveva un sapore, un'emozione. Dentro solo ricordi belli, condivisione, sentirsi una persona sola quando ti incontravi alle riunioni nazionali o alle manifestazioni nazionali dove, arrivati, ti andavi a cercare fra le moltitudini di persone e di colori.
La scuola di partito ad Albinea,ricordi indelebili. Le feste nazionali, quante risate, quanto impegno e quanto sonno, ma mi mancano.
E l'impegno? Tanto, ci credevamo .
Ma sono stata fortunata perchè l'ho avuto, a mio figlio racconto di queste esperienze come di una favola. Son cresciuta con la tessera della FGCI e del PCI in tasca, ne sono orgogliosa, sono quella che sono anche grazie a quello che quegli anni hanno saputo mettermi dentro, hanno saputo darmi.
Il treno a mezzanotte meno dieci da La Spezia centrale per Roma per le riunioni nazionali, da Termini a via delle Botteghe Oscure a piedi perchè arrivavo alle 7.20 e i compagni avevano appena aperto e mi riaddormentavo nella saletta all'entrata.
Ricordi.

da Ernesto Mezza

Amendola: una scelta di vita e di cucina.
Festa Nazionale de L’Unità a Napoli del 1976. Padiglione Caboto, stand dell’Editoria. Tappa obbligata di dirigenti, personalità e delegazioni. Fiore all’occhiello di tutto il Festival. Un pomeriggio entrò un distinto signore: snello, elegante con un bastone: l’artista Ernesto Treccani. Si complimentò per l’allestimento e l’organizzazione e chiese di essere aiutato a rintracciare Giorgio Amendola col quale aveva un appuntamento non del tutto preciso in quanto al luogo. Uscii dallo stand per recarmi in Direzione, per contattare Andreina, la telefonista della Federazione, che per l’occasione svolgeva anche il ruolo di annunciatrice. Le dissi: “Comunica che il compagno Amendola e atteso da Tre…ccani…”. La fermai giusto in tempo per rettificare con: “Il maestro Treccani attende il compagno Amendola…”. Questi, trovandosi in una stanza attigua al centralino, sopraggiunse dopo pochi istanti e insieme c’incamminammo verso il Caboto.
Giunti in libreria ci chiese come andassero le cose. Noi tutti pronti a sfornare i dati di vendita, il fatturato e l’affluenza. Amendola, col suo vocione c’interruppe per riproporci in maniera più esplicita la domanda: “Non in generale, come va il mio ultimo libro: Una scelta di vita?”. Gli rispondemmo che le vendite erano discrete, chiedendogli se gradisse l’allestimento di un banchetto presso il quale autografare le copie vendute. Lui rispose affermativamente e le vendite subito salirono alle stelle.
“Al compagno Esposito con affetto”, “ alla compagna Maria con stima e simpatia”, ”al segretario della sezione con profonda amicizia” e così via. All’improvviso la velocità con la quale firmava le copie rallentò. Ebbe un attimo di esitazione. S’interruppe ed esclamò: “Ma questo non è il mio libro!”. Ed aveva ragione. Si trattava di un libro di ricette di cucina della Fratelli Fabbri editori. La severità con la quale aveva espresso il suo disappunto si sciolse, subito dopo, in un sorriso bonario ed affettuoso, allorquando sentì la compagna che gli aveva consegnato il libro dichiarare, con ferma determinazione e lieve risentimento, in napoletano: “E firmalo ‘o stesso! Nun fa niente!”.
Amendola firmò divertito e forse anche maggiormente lusingato. Era un’ulteriore testimonianza della sua popolarità e dell’affetto che i napoletani nutrivano nei suoi confronti. Anche questo è stato il PCI.

da Mario Lanfranco

Era il 1977 quando decisi, a soli diciassette anni, di iscrivermi alla Federazione Giovanile Comunista Italiana: Sezione Torino Santa Rita, Via Caprera, quartiere popolare, vicino alla scuola per Geometri Castellamonte.
Era un pessimo anno per iscriversi a un qualsiasi partito. In particolare il PCI e i suoi aderenti erano oggetto di aggressioni verbali e spesso fisiche.
L’accostamento all’impegno politico, anche solamente come scelta di campo, in quegli anni, era favorito da una generale diffusione del pensiero politico, alimentata, a sua volta, dalle tumultuose vicende del terrorismo e del golpismo, dell’estremismo e del brigatismo.
Già nell’autunno del 1974 avevo avuto occasione di venire a contatto con gli aspetti più pericolosi della vita politica.
Frequentavo il primo anno del corso per geometri all’ITG Castellamonte, nella succursale di Via Garibaldi, in prossimità di Piazza Statuto, ove era ubicata la sede del Movimento sociale italiano.
Il mattino del 9 ottobre trovai l’ingresso della scuola sbarrato da un gruppetto di ragazzi un po’ più grandi, che non faceva accedere alle lezioni: era un giorno di sciopero!
La motivazione ufficiale era la solidarietà con i 65.000 lavoratori della Fiat messi in cassa integrazione, “ovviamente” quella reale avviare una fase rivoluzionaria.
A metà mattina, un corteo di studenti universitari, principalmente appartenenti all’Autonomia, ci sfilò davanti e si diresse verso il centro della piazza al grido di “Almirante boia!”, io e altri ci accodammo incuriositi. Sul lato di Corso Francia il corteo fu fronteggiato dalla Celere.
Vidi che alcuni dei ragazzi del corteo estrassero dai loro zaini delle bottiglie incendiarie che lanciarono verso le forze dell’ordine che, a loro volta, risposero con razzi lacrimogeni.
Successivamente partì una carica della Polizia in tenuta antisommossa, il fuggi-fuggi fu generale.
Il dibattito era vivace: ricordo gli innumerevoli incontri al Teatro degli Infernotti dell’Unione Culturale, una grande sala al secondo piano interrato (da cui “infernotti”) di Palazzo Carignano, ritrovo della cultura torinese di sinistra.
Presi infine la decisione di iscrivermi alla FGCI perché era una scelta "forte", in quanto controcorrente, moderata, la scelta di chi stava dalla parte del riformismo e di chi pensava che le grandi trasformazioni delle società non si possano fare sulle punte delle baionette.
Voglio anche ricordare i dirigenti del PCI Giorgio Ardito, Mariangela Rosolen e la famiglia Negarville (Celeste fu Sindaco di Torino nel dopoguerra) che spesso mi ospitò per informali riunioni presso la loro casa, i dirigenti Balboni, Turco e Daidola nonché i compagni del Castellamonte, Renato Negarville (seppi successivamente dal fratello Massimo che era prematuramente scomparso), Abatantuono e Massimo Ardito (nipote di Giorgio).
I compagni di scuola che militavano nelle piccole formazioni della sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Avanguardia operaia, Quarta internazionale, Partito comunista marxista leninista, ecc.) i cosiddetti “gruppettari” (chissà, forse oggi molti loro votano Forza Italia!), mi dicevano con tono sprezzante che mi ero iscritto a un partito socialdemocratico.
Intanto la FGCI, pur ripudiando l’uso della forza, continuava a partecipare alle varie manifestazioni organizzate dal movimento studentesco.
Durante i primi giorni di scuola del 1977, ci fu una manifestazione di protesta per l’uccisione a Roma del militante di Lotta continua Walter Rossi per opera di neofascisti.
Così ci ritrovammo a far parte del corteo, dal quale si staccarono degli sciagurati criminali che diedero fuoco, lanciando alcune bottiglie incendiarie, all’interno del bar Angelo Azzurro in Via Po.
Nel rogo che ne conseguì, morì, dopo un giorno di agonia, lo studente lavoratore Roberto Crescenzio.
Contemporaneamente, a Palazzo nuovo, si sarebbe dovuto tenere un’assemblea per discutere di “antifascismo” e invece si rivelò un’occasione per aggredire e colpire a “barottate”[#] gli iscritti alla FGCI. Ne uscimmo pesti in ogni parte del corpo e della mente.
Lo stesso giorno in cui si svolse quella tragica manifestazione fu convocata una riunione urgente dell’Attivo Studentesco, che si svolse presso la sede della federazione torinese in Via Chiesa della Salute 47.
La Segretaria della FGCI torinese, Livia Turco, da poco subentrata a Balboni, prese la parola e annunciò ai convenuti che, a seguito dell’azione di pochi miserabili, un giovane difficilmente sarebbe riuscito a sopravvivere e proseguì suggerendo ipotesi di distinzione dell’organizzazione giovanile comunista dal “movimento”, nel quale le componenti più brutali ed eversive, in preda a un delirio rivoluzionario, stavano diventando egemoni.

da Domenico Pennone

Sono entrato nel mondo del PCI giovanissimo, dopo aver letto un
libricino rosso pieno di follie. Grazie a quella che mi sembrava una
gran famiglia, ho scoperto che studiare è un’arma per evitare di
essere fregato e che la sfiga di nascere in una famiglia povera la
combatti anche nobilitando quella appartenenza.Era il 1978 o forse 79,
ospite del ghetto di Frattocchie, la scuola di partito, dove si
studiava la superiorità e la bellezza della politica, dove arrivavi
presto ad una sola conclusione, per studiare sul serio ne devi uscire.
Di campani, come al solito, ce ne erano tanti e come sempre erano
quelli che animavano il clima, anche troppo. Due mesi prima, durante
un altro corso, un giovane e promettente salernitano l’aveva fatta
grossa, rischiando di far escludere per sempre i figgicciotti dalla
scuola. Un lavandino rotto e Luciano Gruppi che si rifiuta di far
lezione, un pasticcio insomma. I partenopei, considerati troppo
esuberanti, furono allora confinati, per evitare altri guai, in quella
che chiamavano la villa di Corvalan. Una specie di dependance,
distante dall’edificio centrale dove si tenevano i corsi e dove la
sera si beveva qualcosa al bar. I guardiani, dopo le 23, lasciavano i
cani liberi e tornare in camera troppo tardi era un rischio. Una sera
Siro, che era con noi nella dependance, trovò la sua stanza messa a
soqquadro, tutto buttato per aria e qualcosa a lui caro era sparita.
Di quello stupido scherzo io ne fui ingiustamente accusato e so per
certo che Sirio non mi ha mai perdonato. Dopo più di trent'anni vorrei
dirgli che io non c’entravo nulla e che ancora mi dispiace di non
essere stato creduto. Io ero solo quello che appariva il più cattivo,
perché, forse, venivo dall’estrema periferia o perché non avevo fatto
il classico. Provai, comunque, una forte amarezza, la stessa che vissi
pochi mesi dopo ad un’importante conferenza dove mi avevano chiesto di
fare da relatore. Il discorso, per fare bella figura, lo avevo scritto
e lo lessi con risultati pessimi. Scendendo dal palchetto ascoltai
Velardi parlare con un altro dirigente nazionale della FGCI, le sue
parole furono per me una mazzata terribile: “Ma dove lo avete preso a
questo?”. Fu forse l’ultima volta che provai ad avere un ruolo da
protagonista nell’organizzazione. La serata finì comunque bene,
incontrai quella che sarebbe stata la mia compagna.Nel PCI ho
conosciuto le donne e l’amore, ho vissuto l’amicizia e inimicizia, ho
digerito il concetto di amico-nemico, ho imparato a distinguere i
totem dai semafori, ho vinto i tabù e compreso il piacere della
dissolutezza.Nel PCI ho conosciuto uomini che prestavano il proprio
prestigio alla politica ed ho imparato ad evitare quelli che usano la
politica per crearsi un prestigio. Il PCI mi ha dato, nel bene e nel
male, un’appartenenza, una comunità di cui sentirmi parte, una
comunità in cui impari a dissentire fino a non volerne più far
parte.

da Anna Di Lellio

L’ansia dell’intervento. Ma viene prima la crisi internazionale o quella nazionale? Certo, la crisi nazionale si inserisce nel quadro di quella internazionale. Secondo dubbio. Se dico che puntiamo al socialismo faccio l’estremista? Ma la democrazia da sola non basta, rischio di essere socialdemocratica, e questo proprio no. Con gli elementi di socialismo mi sa che me la cavo, sono meno di destra del compromesso storico. Non ero confusa, anzi. Avevo certezze, ma volevo essere sicura di farmi capire, perche’ seguire la linea no, ma neanche sconfinare nella palude riformista o nell’infantilismo degli extraparlamentari. Un bel gioco d’equilibrio.

Un giorno ci presentarono il fidanzato di Matilde, ma dopo il primo scambio di nomi, il suo, che non ricordo, non fu mai piu’ pronunciato. Per noi tutti rimase “Il Socialista.” Non ne ho mai conosciuto altri, ad eccezione dei politici ovviamente, quelli che si presentavano solo quando discutevamo le candidature nelle liste di sinistra e chiedevano un paio di posti, sicuri.

Nel 1981 decisi di partire per gli Stati Uniti. Andai da Pietro Ingrao per dirgli che mi licenziavo dal Centro per la Riforma dello Stato. Della riforma dello stato noi ne parlavamo solo. Craxi l’avrebbe fatta. Pensavo che l’Italia sarebbe cambiata, ma senza il PCI. E non mi sentivo piu’ comunista. D’Alema mi chiamava “l’a-comunista”, ne’ comunista ne’ anti. Che fosse vero?

Ingrao ascolto’ attentamente le mie ragioni, l’unico tra i compagni a farlo. Mi disse, “se avessi la tua eta’ partirei anch’io.” Una sua lettera mi raggiunse a New York nel gennaio dell’82. Il colpo di stato in Polonia lo aveva sentito come “un’angosciosa sconfitta.” L’ennesima. “Vivo un po’ come uno che ha l’impressione che potrebbe aprire una porta (o poteva aprire una porta) e non ci riesce. Bisognerebbe rinascere adesso, sapendo. [..] Mi resta solo una grande volonta’ (necessita’) di non adattarmi.”

Sono passati trent’anni, mi rimane questa grande volonta’ di non adattarmi, ne’ al liberalismo, ne’ al sinistrismo, ne’ all’opportunismo.

da Pietro Iazzetta

Ricordo molto bene: era il 25 aprile del 1978, durante la fase in cui Aldo Moro, prima di essere barbaramente assassinato, era ancora prigioniero delle BR, nella scuola secondaria dove ho studiato (Giovanni Da Verrazzano sita in Roma, Via P. Togliatti -zona sud) , in qualita' di segretario della cellula F.G.G.I., appena rientrato da Firenze dove si era tenuto il congresso nazionale della F.G.C.I., attendevo Giorgio Amendola (dirigente del PCI e del Movimento Partigiano} il quale accetto' di partecipare ad un dibattito in aula magna della stessa scuola il cui tema era: "Differenza tra le brigate Rosse di oggi (1978) che di rosso hanno solo il sangue che vigliaccamente fanno scorrere nelle piazze e le Brigate Partigiane antifasciste."
Fu per me un incontro memorabile, trovarmi fianco a fianco un uomo come Giorgio Amendola fu non solo un emozione ma anche motivo di grande insegnamento storico visto che si trattava di un uomo che da ragazzo aveva subito - rimanendone sconvolto- l'assassinio del padre Giovanni Amendola -dirigente liberale- da parte delle squadracce fasciste.
Spetto' a me aprire la manifestazione e dopo aver sottolineato tutte le differenze storico-politiche tra i vili atti di terrorismo gestiti dalle B.R. con l'unico scopo di far scoppiare la guerra civile in Italia e le nobili lotte portate avanti dal movimento partigiano finalizzate alla riconquista della democrazia e della liberta'.
Amendola in risposta ai quesiti sull' "attentato"di Via Rasella a Roma, ci spiego' molto bene come la rassegnazione fosse l'unica cosa che si percepiva tra la popolazione anche a Roma e come gli italiani non credessere piu' alla possibilita' di una propria autodeterminazione, alla possibilita' di continuare a crearsi un proprio destino storico, stante la ventennale barbarie nazi-fascista e l'occupazione tedesca del nostro territorio. Era presente nelle popolazioni la teoria dell'invulnerabilita' dell'esercito tedesco. Bisognava dimostrare che era possibile darsi una scrollata e sconfiggere il regime fascista e, pertanto, con coraggio si decise di mettere in atto quello che ipocritamente e' stato definito un attentato quando, invece, si trattava di
un atto di guerra avvenuto in un momento in cui c'era la guerra e che e' servito a risvegliare le coscienze. Infatti dopo via Rasella seguirono successivamente altri moti in tutta Italia che culminarono nella liberazione.
Amendola da giovane, pur provenendo da un orientamento politico liberale, decise di iscriversi al Partito Comunista Italiano e lo fece, come ha ben spiegato nel libro "Una scelta di vita" essenzialmente perche' deluso da un atteggiamento attendista e di rassegnazione da parte delle forze liberali di fronte al regime fascista, riconobbe nei comunisti gli uomini piu' valorosi e coraggiosi che piu' apertamente combattevano contro il barbaro regime nazifascista.
Riconoscere che la resistenza e' stata tricolore (alla fine vi parteciparono tutti anche i monarchici) non puo' significare negare che le forze di sinistra -specie il Partito
Comunista- sono state quelle che piu' hanno contribuito a riconquistare democrazia e liberta' nel nostro paese!!
I signori del governo appena caduto non conoscono la storia, fingono di non conoscerla o, peggio ancora, sono nostalgici del regime mussoliniano? C'e' da chiederselo visto i vuoti di presenza degli ex ministri nella giornata commemorativa del glorioso 25 Aprile.

da Antonio Pazienza

Sono stato iscritto tanti anni al PCI, sono stato Segretario cittadino in una realtà nemmeno troppo piccola. Ho avuto diversi incarichi dirigenziali a Torino, in Puglia e in Valle d'Aosta. Nonostante questo faccio fatica a raccontare un episodio di cui porto un ricordo piacevole se non la lite con Fassino. Mi pare fosse l'80, in una raccolta dati elettorali nelle elezioni di sconfitta del PCI dopo il boom del 76. Per il resto ricordo tensioni, scontri oltre ogni limite anche quello delle calunnie. Le feste dell'Unità erano diventate un peso che dovevi sorbirti perché dirigente e a cui nessuno più credeva. Altre volte noia. Poi verso la fine degli anni 80, ero in Puglia, ho cominciato a capire che il Partito era diventato un forte elemento di conservazione, innanzitutto sul piano sociale. Tanti militanti ormai anchilosati ad una storia. Molti di questi avevano fatto diventare la militanza il proprio lavoro per cui cacciarli voleva dire licenziarli. Ovviamente questa conservazione sociale si traduceva in conservazione culturale e politica. La mia vita nel Partito, nata a metà degli anni 70 a Torino, cessa nella metà degli anni 90 ad Aosta. Qui mi sono reso definitivamente conto che quell'elemento di conservazione era diventato cancro.
Detto questo non rinnego l'esperienza e la mia storia. Credo di aver avuto molto sul piano della crescita individuale e nella capacità critica della realtà.

da Giovanni Cardarello

Mi sono iscritto al PCI falsificando la data di nascita nel 1988. Mi sono iscritto di nascosto a mio Padre. Aveva la pensione americana e temeva che un figlio Comunista potesse pregiudicarla ;-)...L'episodio gustoso risale, ahimè, alla fine del partitone, ottobre 1989, sulla spinta e sul fomento delle rivolte nell'Est Europeo i figiciotti come me andavano nelle Sezioni urlando la parole d'ordine del Segretario Gianni Cuperlo: "la fine di Ceaucescu è il mio inizio, la sua morte la mia vita"...Non avevo fatto i conti con Giulivo, militante dichiaratamente stalinista e compagno di vita di una donna rumena figlia di un funzionario della Securitate, il quale molto democraticamente mi fece prima finire l'intervento e subito urlò: "ma li mortacci tua" e mi tirò dietro una sedia.